Cass. Sez. III n. 21814 del 5 giugno 2007 (Ud. 11 mag. 2007)
Pres. Grassi Est. Marini Ric. Pierangeli
Aria. Getto pericoloso di cose

Il reato previsto dalla seconda parte dell'art. 674 C.P. (emissioni di gas, di vapori o di fumo) può essere integrato dalle emissioni maleodoranti qualora queste abbiano carattere non momentaneo e siano capaci di provocare un impatto negativo, anche solo a livello psichico, sulle attività lavorative e di relazione delle persone. Per le attività produttive occorre distinguere l'ipotesi che siano svolte senza autorizzazione (perché non prevista o perché non richiesta o ottenuta) oppure in conformità alle previste autorizzazioni. Nella prima ipotesi, il contrasto con gli interessi protetti dalla disposizione di legge vanno valutati secondo criteri di "stretta tollerabilità" senza poter fare riferimento alla "normale tollerabilità" delle persone quale si ricava dal contenuto dell'art.844 C.C. Quando, invece, l'attività produttiva si svolga secondo le prescritte autorizzazioni, si è in presenza di una situazione che può assumere rilevanza penale solo nella ipotesi che si verifichino contrasti con la disciplina vigente (lettura, questa, che dà concreta e puntuale applicazione all'espressione "nei casi non consentiti dalla legge")

Svolgimento del processo

Con decreto penale di condanna emesso il 20 maggio 2002 e relativo ai fatti oggetto del presente giudizio, il Sig. Pierangeli fu condannato alla pena di Euro 154,00 di ammenda. Avverso tale provvedimento egli ha presentato istanza di oblazione, che il Giudice delle indagini preliminari ha respinto con ordinanza del 7 ottobre 2002 in quanto “dalla relazione di sopralluogo in data del 20 agosto 2002 dell’azienda Sanitaria U.S.L. risultano permanere le conseguenze del reato”. In sede di richiesta di oblazione il Sig. Pierangeli produsse documentazione da cui risultava che in data 14 giugno 2001 l’impresa aveva ottenuto l’autorizzazione ad installare un nuovo impianto che avrebbe ridotto le emissioni nei limiti dell’art. 1 della L.R. n. 6 del 1992, e risultava che tale impianto era destinato ad entrare in funzione il 20 settembre dello stesso anno.

Il Giudice delle indagini preliminari, respinta l’istanza di oblazione, ha emesso il 7 ottobre 2002 decreto di giudizio immediato. Quindi, con decreto di citazione del 6 novembre 2002 il Sig. Pierangeli è stato quindi tratto a giudizio avanti il Tribunale di Pesaro, Sezione distaccata di Fano, per rispondere, quale presidente del consiglio di amministrazione della Agroter Spa (azienda che svolgeva attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti), del reato previsto dagli artt. 81 cpv e 674 c.p. per avere l’attività produttiva della Agroter provocato fino al 20 giugno 2001 emissioni non consentite di gas e vapori che si diffondevano in più località site nel territorio del Comune di Mondavio. Con recidiva infraquinquennale.

In sede di apertura del dibattimento la difesa ha eccepito la nullità del capo di imputazione a causa della sua “indeterminatezza”. L’eccezione è stata respinta dal giudice.

Si sono costituiti parte civile la associazione Legambiente Marche Onlus e il Comune di Mondavio, tramite la suddetta Onlus. Per il Comune di Fratte Rosa e quello di San Lorenzo in Campo il Tribunale con ordinanza 8 luglio 2003 non ha accolto la istanza di costituzione.

La costituzione delle parti civili era stata avversata dalla difesa, che ha sostenuto il difetto di legittimazione sia in capo alla associazione Legambiente Marche sia in capo agli enti comunali, dovendosi per questi ultimi contestare anche la possibilità di agire mediante surroga (art. 9 d.lgs. n. 267 del 2000) ad opera della stessa Legambiente. Entrambe le prospettazioni sono state respinte dal Tribunale.

All’esito dell’istruttoria dibattimentale, non accolta una nuova istanza di oblazione in quanto considerata tardiva (presentata cioè dopo l’inizio della discussione finale, in violazione del termine fissato dal quinto comma dell’art. 162 c.p.), il Tribunale ha ritenuto provata la responsabilità dell’imputato e lo ha condannato nei limiti sopra illustrati.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il Sig. Pierangeli con motivi che possono sintetizzarsi come segue.

Con primo motivo si contesta, ai sensi dell’art. 60, lett. b), c) ed e) c.p.p., l’ordinanza di ammissione delle parti civili. Sostiene il ricorrente che sussisterebbero plurimi aspetti di non corrispondenza la dato normativo. In particolare:

a) carenza di potere di surroga: violazione dell’art. 9, comma 3 del d.lgs. n. 267 del 2000 che prevede soltanto per le conseguenze di “danno ambientale” la costituzione di parte civile delle associazioni di protezione ambientale (art. 13 della legge n. 349 del 1986) per proporre azioni risarcitorie spettanti agli enti comunali e provinciali. Il concetto di danno ambientate è definito dall’art. 15 della legge n. 349 del 1986 e non sembra potersi applicare alla fattispecie contestata al ricorrente, anche considerando che né il Comune di Mondavio né altri enti pubblici sono indicati come persone offese del reato nel presente procedimento.

A tal proposito il ricorso contesta la lettura che il Tribunale badato del concetto di “danno ambientale”, esteso fino a ricomprendere il diritto dell’individuo ad un “ambiente salubre”, secondo l’espressione utilizzata dalle sentenze della Terza Sezione Penale della Corte di cassazione citate nell’ordinanza del Tribunale stesso.

b) Quanto alla costituzione di Legambiente Marche Onlus, il ricorso, richiamata l’assenza del consenso delle persone offese richiesto dall’art. 92 c.p.p. per la costituzione degli enti esponenziali, evidenzia come anche la costituzione in proprio sarebbe priva di presupposti. Avrebbe dunque errato il Tribunale a considerare Legambiente legittima sotto il profilo della “tutela dell’ambiente e della salute pubblica” (secondo quanto previsto dagli artt. 1 e 2 dello Statuto sociale).

Con secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 606, lett. b), d) ed e) c.p.p., la violazione dell’art. 552, comma 2 c.p.p. con riferimento all’ordinanza dibattimentale che ha rigettato l‘eccezione di nullità del capo di imputazione per indeterminatezza dello stesso.

Erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto che la chiara contestazione dei fatti legati alle emissioni renda ininfluente la circostanza che il capo dì imputazione non indica “in quali casi, non consentiti dalla legge” quelle emissioni siano state provocate. Ritiene il ricorrente che in presenza di un’azienda debitamente autorizzata, la mancata indicazione nell’imputazione dei casi non consentiti dalla legge “significa ...omettere l’imputazione stessa”, posto che la legge processuale richiede che la contestazione sia “chiara e precisa”. Così non facendo, infatti, si priva l’imputato della possibilità di conoscere quali sono le violazioni poste in essere che si pongano come rilevanti ai fini della molestia arrecata.

Con terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606, lett. b) c.p.p., la violazione dell’art. 162 bis c.p. da parte dell’ordinanza che in data 29 maggio 2006 ha respinto l’istanza di oblazione presentata dalla difesa in quanto presentata oltre il termine previsto dall’art. 162, comma 5 c:p. (rectius, art. 162 bis) e cioè dopo che il Pubblico ministero aveva reso le proprie conclusioni ai sensi dell’art. 523 c.p.p.

Ritiene il ricorrente che i termini previsti dal citato art. 162 bis non siano tutti perentori, e certamente tale non sarebbe, a differenza del termine contenuto nel primo comma dell’art. 162 bis c.p.p. per la presentazione dell’istanza, quello previsto dal comma quinto per la sua riproposizione; la logica dell’istituto, né la disciplina dell’art. 173 c.p.p. autorizzano a ritenere invalicabile il termine fissato dal citato quinto comma, mentre è la logica deflativa dell’istituto dell’oblazione che giustifica la non superabilità del termine previsto dal primo comma del medesimo articolo.

Con quarto motivo si lamenta, in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. la manifesta illogicità e contraddittorietà della sentenza impugnata con conseguente erronea applicazione dell’art. 674 c.p. In altri termini, il ricorrente lamenta l’errata o parziale lettura di alcune risultanze probatorie, ivi compreso l’accertamento tecnico del Prof. Veronesi e delle spiegazione da costui fornite in sede dibattimentale, con conseguente erronea ricostruzione dei fatti in assenza di motivazioni che diano conto delle ragioni per cui gli elementi di prova acquisiti con valenza favorevole all’imputato sono stati dal Tribunale esclusi o ritenuti superati.

Con quinto motivo si lamenta, in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p., manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, con conseguente errata applicazione dell’art. 674 c.p., per avere il giudice erroneamente deciso e motivato in ordine al mancato superamento dei limiti di tollerabilità da parte di un’azienda debitamente autorizzata, con la conseguenza che non sussistendo

violazioni delle norme in materia ambientale non sussistono neppure i presupposti stessi del reato previsto dall’art. 674 c.p.

Con sesto motivo si lamenta la violazione dell’art. 159 c.p., in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p., per avere il giudice erroneamente omesso di dichiarare la prescrizione del reato. Ciò sotto un duplice profilo: a) errata cessazione del reato alla data del 20 giugno 2001, essendo pacifico che la Agroter Spa aveva presentato fin dall’8 novembre 2000 la istanza per ottenere l’autorizzazione ad installare gli impianti di essiccazione, con la conseguenza che non può farsi carico al ricorrente dei tempi di rilascio dell’autorizzazione stessa; b) errata applicazione dell’art. 159 c.p. per avere il giudice calcolato per intero i periodi di sospensione del dibattimento; posto che alla data di entrata in vigore della legge Cirielli (8 dicembre 2005) il dibattimento era già stato aperto, detta legge non può trovare applicazione, con la conseguenza che non tutte le sospensioni disposte su istanza della difesa assumono rilievo e che, in ogni caso, la sospensione può essere considerata ai fini prescrizionali sono nella parte di effettivo impedimento e non per l’intero periodo del rinvio.

 

Motivi della decisione

Ritiene la Corte che il ricorso meriti accoglimento e che la sentenza impugnata debba essere annullata.

1. Invero, l’ampia e motivata sentenza ed il pregevole ricorso hanno messo la Corte di fronte ad un complesso spettro di problematiche interpretative, che meriterebbero un’altrettanto complessa disamina.

Va peraltro rilevato che in questo contesto sembrano assumere valore centrale il quarto e quinto motivo di ricorso, che hanno come oggetto l’analisi dell’art. 674 c.p., tanto sotto il profilo della valutazione delle risultante processuali, quanto con riferimento alla struttura della disposizione sanzionatoria e alla sua interpretazione.

2. Deve osservarsi preliminarmente che la giurisprudenza di legittimità, a differenza della lettura che la sentenza impugnata ne offre, dà ormai da alcuni anni una interpretazione dell’art. 674 c.p. che, distinguendo fra i contenuti della prima e della seconda parte della disposizione, può dirsi costante e stabile. La stabilità della interpretazione giurisprudenziale, che ha superato i contrasti segnalati dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni e che non rende necessario investire le Sezioni Unite della questione, autorizza questa Corte ad esporre in modo molto sintetico le proprie motivazioni.

3. In sostanza, si rileva come la giurisprudenza abbia fissato il principio secondo il quale il reato previsto dalla seconda parte dell’art. 674 c.p. (emissioni di gas, di vapori o di fumo) può essere integrato dalle emissioni maleodoranti qualora queste abbiano carattere non momentaneo e siano capaci di provocare un impatto negativo, anche solo a livello psichico, sulle attività lavorative e di relazione delle persone (tra le altre, Sezione Terza Penale, n. 3678 del 1° dicembre 2005-31 gennaio 2006, Giusti, rv 233291).

Ciò detto, per le attività produttive occorre distinguere l’ipotesi che siano svolte senza autorizzazione (perché non prevista o perché non richiesta o ottenuta) oppure in conformità alle previste autorizzazioni. Nella prima ipotesi, il contrasto con gli interessi protetti dalla disposizione di legge vanno valutati secondo criteri di “stretta tollerabilità” senza poter fare riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone quale si ricava dal contenuto dell’art. 844 c.c. (per tutte, Sezione Terza Penale, sentenza n. 11556 del 21 febbraio-31 marzo 2006, Davito Bava, rv 233565). Occorre, in altre parole, procedere ad una libera e attenta valutazione delle conseguenze che le emissioni producono sull’area esterna all’azienda e sulle persone che vi abitano o comunque operano.

4. Quando, invece, l’attività produttiva si svolga secondo le prescritte autorizzazioni, si è in presenza di una situazione che può assumere rilevanza penale solo nella ipotesi che si verifichino contrasti con la disciplina vigente (lettura, questa, che concreta e puntuale applicazione all’espressione “nei casi non consentiti dalla legge”). In particolare, la giurisprudenza ha fissato il principio interpretativo secondo cui non sussiste rilevanza penale delle emissioni quando esse siano inferiori ai limiti previsti da generali disposizioni normative o dalle autorizzazioni in concreto rilasciate (sentenze della Terza Sezione Penale n. 33971 del 21 giugno-10 ottobre 2006, Bortolotto, rv. 235056; n. 8299 del 8 gennaio-9 febbraio 2006, Tortora, rv. 233562; n. 19898 del 21 aprile-26 maggio 2005, Pandolfini, rv. 231651). Al di sotto di tali limiti, dunque, le emissioni non integrano forme di responsabilità penale e possono solo dare corso all’eventuale applicazione della disciplina fissata dal citato art. 844 c.c.

Ed anche le decisioni che dal mancato superamento dei limiti fissati non fanno discendere in modo inevitabile la non rilevanza penale della condotta, hanno cura di precisare che la tutela dei diritti delle persone non può spingersi, in presenza di legittime autorizzazioni rilasciate all’impresa, oltre il livello della concreta esigibilità dell’adozione di misure atte a prevenire ed evitare potenziali lesioni o effettive conseguenze dannose. Si sostiene, in altri termini, che una responsabilità può sussistere anche all’interno dei limiti fissati qualora l’azienda non adotti quegli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per ulteriormente abbattere l’impatto sulla realtà esterna (si veda Sezione Terza Penale, sentenza n. 38396 del 28 settembre-24 ottobre 2005, Riva e altri, rv 232359).

5. Ritenendo di aderire alle interpretazioni qui esposte, alle cui motivazioni si rinvia, questa Corte può limitarsi a rilevare che l’attività svolta dall’azienda amministrata dal ricorrente era in possesso delle prescritte autorizzazioni e non risulta avere violato le relative prescrizioni né avere ecceduto i limiti di emissione previsti.

Sotto altro profilo, sia la consulenza di ufficio sia il complessivo materiale probatorio sia la documentazione prodotta dal ricorrente impongono di ritenere che l’impresa abbia nel tempo operato ai fine di ridurre al massimo le emissioni, fino alla installazione di specifici e costosi accorgimenti tecnici nel corso dell’anno 2001.

6. Così ricostruita la situazione di fatto e le linee interpretative della fattispecie disciplinata dall’art. 674, la Corte non può che concludere per la non sussistenza del reato contestato al ricorrente. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza rinvio.

7. La soluzione così adottata, pienamente liberatoria per il ricorrente, esclude che si debba procedere all’esame dei restanti motivi di ricorso. Non quelli relativi alla nullità del decreto di citazione a giudizio e delle ordinanze in tema di oblazione, oppure relativi alla mancata dichiarazione di prescrizione del reato, che a giudizio della Corte non sono fondati e condurrebbero a risposte comunque meno favorevoli. Lo stesso dicasi per il motivo di ricorso relativo alla costituzione delle parti civili, a questo punto privo di rilievo.