Cass. Sez. III n. 18459 del 16 maggio 2025 (UP 3 apr 2025)
Pres. Ramacci Est. Noviello Ric. Bastone
Urbanistica.Ambito di applicazione art. 34-bis TUE
Le difformità "tollerabili" di cui all'art. 34 bis c.p. riguardano interventi che siano realizzati in difformità dal titolo abilitativo ma nel corso della sua vigenza e non rispetto ad un titolo assai risalente nel tempo e quindi ormai cessato nella sua operatività. Le tolleranze altresì di cui ai commi 1 bis e 2 bis dell'art. 34 bis citato riguardano gli interventi realizzati entro il 24 maggio 2024, cui non attengono quelli in questione.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con sentenza di cui in epigrafe, la corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza del tribunale di Cosenza del 19.12.2022, di condanna in ordine ai reati ex artt. 44 lett. b) del DPR 380/01 e 93 e 95 del DPR 380/01.
2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso Bastone Giovanni mediante il suo difensore, deducendo plurimi motivi di impugnazione.
3. Con il primo motivo deduce che i fatti contestati rientrerebbero nella previsione di cui all’art. 34 bis del DPR 380/01, siccome riferibili a opere di cui ad un precedente titolo abilitativo e si sottolinea altresì come le predette opere rientrerebbero nelle tolleranze costruttive ivi contemplate.
4. Con il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 37 e 44 lett. b) del DPR 380/01. Si tratterebbe di opere soggette a SCIA e lo stesso ricorrente avrebbe presentato una SCIA in sanatoria e non un permesso di costruire in sanatoria, come sostenuto in sentenza. Di qui il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato. Si osserva che troverebbe applicazione l’art. 37 del DPR 380/01, che non contempla un termine per la risposta della autorità comunale sulla istanza di sanatoria per cui il silenzio della predetta autorità deve ritenersi quale silenzio inadempimento ex art. 19 comma 6 bis della L. 241/1990. Erroneo allora sarebbe l’inquadramento della istanza di sanatoria nell’art. 36 comma 3 del DPR 380/01 e la qualificazione del silenzio serbato dall’ufficio comunale quale silenzio rigetto della istanza di sanatoria. Si ribadisce quindi il vizio di motivazione – per non avere la corte considerato le censure difensive - quanto alla qualificazione del silenzio della P.A. come rigetto della predetta domanda, da qualificarsi piuttosto come silenzio assenso ai sensi del nuovo art. 36 bis del Dlgs. 380/01. Vi sarebbe altresì una mera parziale difformità integrante illecito amministrativo ex art. 44 comma 2 del DPR 380/01. Sarebbe carente la motivazione anche in ordine al capo b). Non si sarebbe verificata la necessità o meno, per le opere realizzate, di una previa autorizzazione dell’ufficio competente.
5. Con il terzo motivo deduce il vizio di violazione di legge e di motivazione in ordine all’art. 131 bis cod. pen., stante l’omessa valutazione al riguardo.
6. Con il quarto motivo si deduce l’intervenuta prescrizione dei reati.
7. Il primo motivo è inammissibile, siccome nuovo. Si premette che il ricorrente non ha contestato in ricorso il riepilogo delle conclusioni riportato in sentenza, sussistendo un onere di specifica contestazione del riepilogo delle stesse, così come dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, allorquando si ritenga che non sia stata menzionata la medesima questione come già proposta in sede di gravame; in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve pertanto ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (cfr. in tal senso, con riferimento alla omessa contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017 Ud. (dep. 28/06/2017 ) Rv. 270627 - 01). Invero, in sentenza si riporta che la prima censura riguardava l’intervenuta integrazione di silenzio assenso in tema di sanatoria, il secondo afferiva alla sussistenza di un mero illecito amministrativo e il terzo alla violazione dell’art. 95 del DPR 380/01. E’ sufficiente a questo punto osservare che le difformità "tollerabili" citate dalla difesa richiamando l'art. 34 bis c.p. riguardano interventi che siano realizzati in difformità dal titolo abilitativo ma nel corso della sua vigenza e non, come sembra paventarsi nel caso di specie, rispetto ad un titolo assai risalente nel tempo e quindi ormai cessato nella sua operatività. Le tolleranze altresì di cui ai commi 1 bis e 2 bis dell'art. 34 bis citato riguardano gli interventi realizzati entro il 24 maggio 2024, cui non attengono quelli in questione. Puramente assertiva e dunque indimostrata è la tesi peraltro della realizzazione di tali interventi minimi a fronte di opere ben più rilevanti, come appresso indicate.
8. Quanto al secondo motivo, esso, nella parte in cui si ripropone e critica la tematica del silenzio assenso, deve ritenersi inammissibile. Per la parte in cui pare sostenere la esistenza di un mero illecito amministrativo, va osservato innanzitutto che la risposta della corte è stata nel senso della esclusione di tale tesi con richiamo, a riprova, della circostanza per cui lo stesso ricorrente avrebbe presentato una richiesta di permesso in sanatoria. La risposta circa la rilevanza delle opere, tale da non ridursi ad un illecito amministrativo bensì penale, è dunque chiara oltre che corretta ed esistente. Ed appare giuridicamente corretto anche il richiamo ad una intervenuta istanza di permesso in sanatoria quale riprova proveniente dallo stesso ricorrente. Al riguardo allora, la obiezione difensiva per cui in realtà si sarebbe trattato di una istanza di sanatoria ex art. 37 e quindi afferente un illecito amministrativo, così da inficiarsi la predetta motivazione, appare manifestamente infondata, trattandosi di una mera asserzione di parte, priva di ogni allegazione a sostegno. In proposito, va ricordato che il vizio del travisamento della prova, fondato su dati dichiarativi, e, si deve ritenere, anche su quelli documentali, impone l’allegazione integrale dell’atto (cfr. Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011 (dep. 14/03/2012) Rv. 252349 S), che risulta mancante nel caso di specie. In altri termini, manca la allegazione, da parte del ricorrente, di documentazione comprovante la avvenuta presentazione di una domanda di sanatoria per illecito edilizio di rilievo amministrativo – ex art. 37 citato - piuttosto che penale, ex art. 36 DPR 380/01. Va anche rilevato che, a fronte, per quanto sopra osservato, di una coerente sebbene succinta motivazione sulla qualificazione delle opere, viene in rilievo, con la censura difensiva, una questione di rilievo giuridico per la quale vale il principio, altresì, per cui il vizio di motivazione, che non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all'art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. in tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 - 01 Emmanuele). E allora, riguardo al caso concreto, è indubbio che le opere realizzate, quali una copertura in lamiera, una sopraelevazione della porzione di una falda di un tetto, e una pavimentazione con massetto in calcestruzzo, edificate su un manufatto preesistente, sono interventi alteranti lo stato dei luoghi, come tali richiedenti il permesso di costruire, atteso che anche a seguire la tesi difensiva della originaria sussistenza di un titolo edilizio per il manufatto su cui insistono tali opere, trattandosi comunque di titolo ormai risalente nel tempo e dalla cessata efficacia, ciò avrebbe imposto il necessario rilascio di un nuovo permesso. Deve aggiungersi, per completezza, che secondo la contestazione, che non trova smentite né in sentenza né con specifiche censure difensive munite di allegazione, in realtà si tratta di interventi operati su un manufatto già a sua volta privo di permesso e dunque abusivo. Per cui, a maggior ragione, gli interventi sono di rilievo penale, con esclusione di ogni discorso, anche solo teorico, in termini di parziale difformità rispetto a quanto già consentito con titolo abilitativo (lo si ripete, insussistente).
Quanto poi alla dedotta carenza della motivazione anche in ordine al capo b) relativo agli artt. 93 e 94, del DPR 380/01, per cui non si sarebbe verificata dai giudici la necessità o meno, per le opere realizzate, di una previa autorizzazione dell’ufficio competente in presenza di interventi che la difesa assume già autorizzati (tale è il gravame riepilogato in sentenza di secondo grado e non contestato), si deve premettere che la sentenza costituisce un tutto coerente ed organico, con la conseguenza che, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di un valido percorso giustificativo, ogni punto non può essere autonomamente considerato, dovendo essere posto in relazione agli altri, con la conseguenza che la ragione di una determinata statuizione può anche risultare da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito (v. Sez. 4, n. 4491 del 17/10/2012 (dep. 2013), Pg in proc. Spezzacatena e altri, Rv. 255096, conf. Sez. 5, n. 8411 del 21/5/1992, Chirico ed altri, Rv. 191487). Consegue che la motivazione, che sostiene la necessità dell’autorizzazione di cui al combinato disposto degli artt. 93 e 95 del DPR 380/01 nel quadro di una appurata realizzazione di opere prive del necessario permesso di costruire (diversamente da quanto assunto dalla difesa anche a sostegno della presente censura) e connotate altresì dalla loro consistenza in sopraelevazioni e dall'uso di calcestruzzo, appare corretta oltre che adeguata e non “manifestamente” illogica. Invero, a fronte di affermate opere (prima descritte) prive del necessario titolo edilizio e quindi in alcun modo correlate a precedente manufatto (peraltro anche esso privo di titolo per quanto sopra osservato, e dunque abusivo), la predetta motivazione appare in linea con l’indirizzo per cui, in materia di reati antisismici, integra la contravvenzione di cui all'art. 95 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, la realizzazione di qualsiasi intervento edilizio in zona sismica in violazione della normativa di settore, anche se consistente nella costruzione di semplici "volumi tecnici", con la sola eccezione delle opere di manutenzione ordinaria, in quanto il reato tutela la sicurezza e l'incolumità pubblica. (Sez. 3, n. 17707 del 31/01/2019, Rv. 275568 - 01). Né ad essa si oppone alcuna specifica confutazione, necessaria per l'onere di specificità dell'impugnazione, illustrativa delle ragioni della non necessità, in tale quadro, del rispetto della normativa di riferimento. Si rammenta, a tale ultimo riguardo, il requisito della specificità dei motivi di impugnazione, che implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (cfr. tra le altre, Sez. 3, n. 5020 del 17/12/2009, Valentini, Rv. 245907, Sez. 4, n. 24054 del 01/04/2004, Distante, Rv. 228586; Sez. 2, n. 8803 del 08/07/1999, Albanese, Rv. 214249).
Consegue la manifesta infondatezza del motivo così proposto
9. Quanto al terzo motivo esso è nuovo alla luce del non contestato riepilogo dei motivi di gravame di cui alla sentenza impugnata.
10. Quanto alla prescrizione, dedotta con l’ultimo motivo, si osserva che tenuto conto delle intervenute sospensioni essa matura alla data del 16.11.2024 e che stante la inammissibilità dei suesposti motivi la stessa non è rilevabile in questa sede. Invero costituisce principio sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte e a maggiore ragione valevole per la prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata, quello per cui l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma secondo, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso. (In motivazione la Corte ha precisato che l'art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione). (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818 - 01; nel medesimo senso anche Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966 - 01)
11. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso il 03/04/2025