SMALTIMENTO ABUSIVO DI RIFIUTI SPECIALI ALTAMENTE PERICOLOSI TRA LACUNE LEGISLATIVE E SUPPLENZA DEL GIUDICE

di Gianluca BELLOMO

pubblicato su Giur. merito 2009, 9, 2207.


Gianluca Bellomo

Assegnista di ricerca in diritto ambientale comparato presso l'Università degli studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara

Sommario: 1. Il caso. - 2. La rilevanza e l'accertamento dell'elemento soggettivo nei delitti di danneggiamento ed interruzione di pubblico servizio. - 3. Disastro colposo e danno ambientale: elementi del reato e confine tra le fattispecie. - 4. Considerazioni conclusive.

1. IL CASO
La sentenza in commento, articolata, dettagliata e complessa, benché non presenti caratteri di particolare originalità tuttavia offre lo spunto per alcune brevi considerazioni e riflessioni sul rapporto tra diritto penale ed ambiente. Ma andiamo per ordine e preliminarmente sia consentito riepilogare per sommi capi la questione che il giudice si è trovato ad affrontare.
L'avvio dei fatti si ha a partire dal mese di febbraio 2005 quando, in più occasioni, il gestore di un impianto di depurazione delle acque fra i più importanti di Milano si era accorto che al depuratore giungevano scarichi anomali (contenenti tra gli altri inquinanti forti percentuali di cromo esavalente, particolarmente pericoloso per l'uomo e l'ambiente) che avevano causato gravi disfunzioni alle fasi preliminari di trattamento delle acque dell'impianto, oltre a danni alla gestione dello stesso. Nel luglio dello stesso anno il gestore denunciò il mancato rispetto dei limiti tabellari imposti per legge delle acque in uscita dall'impianto, con la conseguente interruzione del trasferimento delle acque in uscita precedentemente destinate ad uso irriguo, in considerazione dei possibili effetti negativi che sarebbero potuti derivare agli effluenti dello stesso.
Da indagini successive si accertava che le suddette criticità erano determinate da una serie di sversamenti di rifiuti speciali altamente pericolosi (contenenti elevatissime quantità di cromo esavalente) effettuati, in più occasioni e per grossi quantitativi, in fognatura da parte del titolare di una società in via di dismissione che fu iscritto nel registro degli indagati, e quindi rinviato a giudizio.
Da ulteriori indagini effettuate dal nucleo ambiente della polizia municipale e dall'ARPA si accertò che oltre allo smaltimento in pubblica fognatura l'imputato, amministratore della società, aveva provveduto, prima a smaltire detti rifiuti direttamente nel terreno della società, nel luogo dove erano precedentemente siti alcuni serbatoi dallo stesso rimossi, e successivamente aveva cercato di occultare detta azione riempiendo e cementando i pozzetti nei quali erano stati sversati gli inquinanti.
Tali risultanze comportarono, prima il sequestro dell'intero insediamento produttivo, e successivamente l'emissione di un'ordinanza del Comune di competenza che imponeva all'imputato: la messa in sicurezza d'emergenza del sito; lo smaltimento delle vasche residue ancora presenti in azienda e del relativo contenuto di rifiuti speciali pericolosi; ed infine di presentare un idoneo piano di caratterizzazione del sito in oggetto.
Da una serie di accertamenti successivi eseguiti dall'ARPA presso il sito della ditta in parole emergeva la presenza di elevati livelli di cromo esavalente sia nei pozzetti di raccolta del piazzale della ditta, sia nell'acqua di falda sottostante il sito contaminato.
Di ciò veniva informata la ASL competente ed il gestore dell'acquedotto, e veniva predisposto il monitoraggio della situazione e il posizionamento di una barriera idraulica come misura di messa in sicurezza d'emergenza del sito.
Da ulteriori campionamenti disposti dal P.M. emergeva una chiara correlazione tra gli smaltimenti effettuati dalla ditta e l'inquinamento da cromo esavalente della falda sottostante la ditta stessa.
Infine il Comune interessato, trascorsi i tempi previsti dalla legge, comunicava che l'ordinanza emessa dallo stesso non era stata ottemperata dall'imputato.
La vicenda portava alla formulazione, da parte del P.M., di cinque capi di imputa zione: a) smaltimento abusivo di rifiuti speciali altamente pericolosi; b) interruzione di pubblico servizio con riferimento al turbamento dell'attività del depuratore che ha ricevuto detti rifiuti attraverso lo sversamento in fognatura; c) danneggiamento sia del depuratore stesso che della falda acquifera sottostante il sito dismesso; d) disastro colposo; e) omessa bonifica del sito in questione inquinato dai rifiuti speciali altamente pericolosi abusivamente sversati.
L'imputato veniva condannato per i capi a), d) ed e); e prosciolto dai capi b) e c) in quanto «il reato non sussiste».
2. LA RILEVANZA E L'ACCERTAMENTO DELL'ELEMENTO SOGGETTIVO NEI DELITTI DI DANNEGGIAMENTO ED INTERRUZIONE DI PUBBLICO SERVIZIO IN MATERIA AMBIENTALE
Per quanto attiene al primo capo d'imputazione contestato dal P.M. nella sentenza qui annotata (smaltimento abusivo di rifiuti speciali altamente pericolosi) il giudice non ha molte difficoltà nell'accertare la palese sussistenza del reato, in considerazione dell'evidenza del quadro probatorio a carico dell'imputato, sia quindi consentito passare oltre.
Di maggiore interesse invece sono il secondo e terzo capo d'imputazione, contestati all'imputato e relativi al delitto di «interruzione di pubblico servizio», con riferimento al turbamento della regolarità dell'esercizio dell'impianto di depurazione; e di «danneggiamento», nello specifico sia della falda acquifera, sia del sistema di depurazione a batteri dell'impianto di depurazione.
Detti capi d'imputazione, e l'azione ermeneutica attuata nel caso di specie dal giudice, infatti, ripropongono ancora una volta la questione del sottile e labile confine esistente tra colpa e dolo (1) ma questa volta in relazione al delicato tema della tutela penale dell'ambiente (2).
Nella sentenza in questione il giudice ha ritenuto che, nonostante la sussistenza degli elementi riconducibili alla colpa (negligenza, irresponsabilità, leggerezza, e trascuratezza nello sversamento abusivo dei rifiuti altamente pericolosi sia in fognatura che nel suolo della ditta) questi, ovviamente, non potessero essere ribaltati nella oggettivizzazione della presenza dell'elemento soggettivo doloso e che comunque non si fosse raggiunta la prova dell'esistenza del dolo, necessario a sua volta per la sussistenza dei due reati, da parte dell'imputato. Ciò in quanto, sempre secondo il giudice investito della questione, relativamente al delitto di «danneggiamento», anche se il dolo non è qualificato dal fine specifico di nuocere, tuttavia, viene richiesta la «coscienza e volontà di danneggiare» (3); per il reato di interruzione di pubblico servizio invece, anche se l'elemento soggettivo non consiste solo nella specifica intenzionalità diretta a provocare l'interruzione o il turbamento del pubblico ufficio o servizio, si rende comunque quantomeno necessaria la consapevolezza che l'azione sia idonea a cagionare l'evento di interruzione o di turbativa e la relativa accettazione del rischio del suo verificarsi da parte dell'agente (4).
La questione della sussistenza o meno dei reati si gioca quindi sul terreno scivoloso dell'elemento psicologico del reato stesso, cioè sulla divergenza di volontà dell'agente dal fatto. A tal riguardo il problema, quindi, consiste nel cercare di trovare elementi utili alla riduzione di discrezionalità nell'esercizio della sua azione giudicante, e quindi alla conseguente oggettivizzazione del riconoscimento dell'esistenza dell'elemento soggettivo nel momento in cui il giudice è chiamato a valutarne la sussistenza o meno.
A tal riguardo si sono affermate con il tempo, sia in dottrina sia attraverso diverse interpretazioni giurisprudenziali, una serie di declinazioni sul tema che hanno cercato di addivenire a dei criteri compiuti di individuazione della colpa e del dolo: nascevano così, tra le altre, le categorie di «colpa cosciente», «dolo eventuale», «diretto», ma anche «alternativo». Dettate, queste, a loro volta, dalle necessità contingenti della giurisprudenza stessa che in assenza di specifiche e ben definite ipotesi di reato appositamente predisposte dal legislatore per risolvere i complessi e delicati problemi che le erano sottoposti ha dovuto cercare di auto limitare i propri livelli di discrezionalità all'interno dei giudizi. Nonostante gli sforzi fatti, comunque, come dimostra la pronuncia qui in commento (ma se ne possono segnalare di simili in punto di diritto che hanno condotto a risultati diametralmente opposti) (5) resta comunque in capo al giudice l'onere di indagare l'aspetto psicologico dell'imputato per cercare in qualche modo di rinvenire o meno gli elementi ritenuti indispensabili per la sussistenza dei reati in questione, dovendo troppo spesso sopperire, di fatto, all'assenza di una chiara normativa che lo tragga d'impaccio anche di fronte a risultati evidentemente contradditori che si hanno nella trattazione di situazioni analoghe.
Si comprenderà, infatti, che una diversa lettura del profilo psicologico dell'indagato, non meno legittima anche se forse un po' più coraggiosa di quella data nella sentenza, poteva, attraverso una interpretazione che avesse dato maggior peso al momento rappresentativo del dolo e non a quello più prettamente volitivo (6), ravvisando l'accettazione del rischio degli accadimenti nell'elemento psicologico dell'imputato, condurre ad una decisione del giudice diametralmente opposta. Infatti tale diversa interpretazione poteva poggiare su una serie di elementi dei quali di seguito si segnalano solo i più rilevanti: l'imputato era imprenditore del settore, e quindi si presume che conoscesse bene i prodotti legati al proprio ciclo produttivo ed i relativi rifiuti da questo prodotto; lo stesso aveva già provveduto a smaltire in precedenza correttamente i propri rifiuti speciali altamente pericolosi e quindi doveva necessariamente essere cosciente dei loro potenziali livelli di pericolosità per cose e persone, peraltro facilmente intuibili dagli elevati costi di smaltimento che intendeva evitare proprio attraverso il ricorso allo smaltimento illecito; l'imputato aveva sottoscritto apposito contratto per l'allaccio alla fognatura e quindi era obbligatoriamente tenuto a conoscere le specifiche di composizione per l'ammissibilità in fognatura stessa dei reflui, e comunque sicuramente doveva essere a conoscenza dell'esistenza di un divieto assoluto di immissione di rifiuti speciali altamente pericolosi; infine l'imputato non poteva certo sperare di non provocare un qualche danno o turbamento all'esercizio dell'impianto di depurazione o alla falda, specie in considerazione degli elevati quantitativi (si parla di centinaia e migliaia di litri di liquidi, di interi bidoni che venivano svuotati) e del ripetuto numero di volte (dal maggio al luglio 2005) in cui ha provveduto ad effettuare gli sversamenti.
Il risultato paradossale al quale si arriva quindi nel caso di specie è che, a condizioni invariate, se l'imputato fosse stato un esperto di impianti di depurazione o un esperto di problematiche ambientali, o un geologo (o comunque si fosse potuto rendere oggettiva la sua competenza in materia) sarebbe stato condannato per entrambi i reati a lui contestati in quanto non avrebbe potuto negare la consapevolezza degli effetti delle proprie azioni. Quindi a parità di effetti prodotti dal comportamento illecito posto in essere, un imprenditore con presunte scarse competenze in materia è assolto ed invece un'altro con elevate competenze oggettivizzate è condannato, ciò nonostante entrambi i reati siano derivanti da attuazione di un comportamento illecito e quindi in re ipsa presumibilmente dannoso.
Con quanto rilevato non si vuole affermare quindi che il giudice non abbia svolto o interpretato correttamente il proprio ruolo, bensì che purtroppo le fattispecie attualmente esistenti e alle quali l'ordinamento è costretto a ricorrere per la tutela penale dell'ambiente troppo spesso mal si adattano alla delicatezza e alle peculiarità della materie e all'importanza del bene tutelato. Si intuisce facilmente, infatti, che il danneggiamento di una falda acquifera è cosa ben diversa dal danneggiamento di un bene non ambientalmente rilevante, e ciò sia in termini di possibili danni che da tale reato, sia nel breve ma soprattutto nel lungo periodo, possono derivare in capo ad un elevato numero di persone, sia per la difficoltà, se non spesso impossibilità, di poter ripristinare la situazione pregressa al verificarsi dell'evento dannoso.
Ulteriore elemento, infine, che rileva nell'azione di attribuzione del reato di danneggiamento della falda da parte del giudice nei confronti dell'imputato, è costituito dalla difficoltà di provare scientificamente gli effetti sulla falda stessa degli sversamenti abusivi nel suolo di rifiuti pericolosi, sia in considerazione della limitatezza degli studi a ciò relativi, sia a causa degli elevati costi e dei lunghi tempi necessari per lo svolgimento di apposite ricerche in tale ambito.
Ma quindi si può arrivare ad una presunzione di sussistenza dell'elemento psicologico doloso in caso di danneggiamento o di interruzione di pubblico servizio presumendola in alcuni casi (inquinamento di falda) e dovendola provare in altri (altro bene)? La risposta è ovviamente negativa in quanto ciò sarebbe ancora una volta un evidente paradosso che porterebbe a trattare fattispecie, ad oggi analoghe, in modo diametralmente opposto. Ancora una volta la corretta risposta può arrivare solo dal legislatore con l'introduzione di fattispecie di reato ad hoc per scoraggiare tali comportamenti delittuosi.
3. DISASTRO COLPOSO E DANNO AMBIENTALE: ELEMENTI DEL REATO E CONFINE TRA LE FATTISPECIE
L'art. 434 c.p. intitolato «Crollo di costruzioni o altri disastri colposi», inserito tra i delitti contro l'incolumità pubblica e nello specifico tra quelli di comune pericolo mediante violenza, prevede, per la sussistenza del reato la presenza dei soli elementi oggettivi indicati dal legislatore con la previsione che dal fatto debba derivare pericolo per la pubblica incolumità; l'art. 449 c.p. invece prevede una autonoma ipotesi di disastro punita a titolo di colpa.
Quindi gli elementi individuati da una costante e ormai consolidata giurisprudenza sono individuabili in: a) la condotta colposa; b) il nesso di causalità con l'evento di danno; c) che l'evento di danno colpisca con effetti straordinariamente gravi, complessi ed estesi, cose e persone, generando pubblica commozione (7).
A questi criteri, da ultimo e con specifico riferimento al disastro ambientale colposo, è stato inoltre aggiunto, sempre dalla giurisprudenza (8), che di fatto ancora una volta è stata chiamata a svolgere una funzione definitoria (9) (estensiva della portata originaria del reato) adeguando in ottica materiale il genus del disastro colposo alla species del disastro ambientale colposo, ciò affermando che: d) l'evento di danno o il pericolo per la pubblica incolumità deve si essere straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane; e) non è necessario ai fini della sua sussistenza che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone; f) non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo al fine della prova dell'esistenza del «disastro» (10). Peraltro da questa stessa consolidata giurisprudenza è stato anche evidenziato come il limite di demarcazione tra disastro e danno ambientale (11), di per sé già molto labile, viene totalmente meno allorché l'attività di contaminazione diretta o indiretta, una volta verificata la sussistenza degli elementi anzidetti, assuma caratteri tali in termini di durata, ampiezza e intensità da risultare «straordinariamente complessi».
Il giudice della Sentenza, alla luce dei requisiti enunciati e ripresi dallo stesso su tale fattispecie (violazione degli artt. 449 e 434 c.p.), dopo ampi approfondimenti tecnico-scientifici (12) relativi alle caratteristiche del funzionamento dell'impianto di depurazione e alle attuali conoscenze in tema di pericolosità per l'ambiente, per la falda acquifera, per gli effluenti del depuratore, ma soprattutto, in ultima istanza, per la popolazione interessata, riscontrando la sussistenza di tali elementi, si esprime per la colpevolezza dell'imputato.
Il giudice procede, inoltre, a riconoscere in capo alle parti civili (Provincia di Milano, Comune di Milano e al Gestore del servizio idrico integrato) sulla scorta di quanto previsto dall'art. 300 (nozione di danno ambientale) (13) e 309 (soggetti legittimati alla partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino) d.lg. n. 152 del 2006, la sussistenza del diritto al risarcimento del danno ambientale sulla base sia dei compiti affidati a detti soggetti dalla normativa concernente la tutela delle acque (artt. 73 ss. d.lg. n. 152 del 2006) sia quella concernente i rifiuti (artt. 197 e 198 d.lg. n. 152 del 2006). Proprio la dimensione pubblica delle parti civili viene vista come elemento fondante il riconoscimento al diritto all'ammissibilità (14) al risarcimento nei confronti delle stesse, essendo questa strettamente discendente dall'evidente interesse pubblico che sempre più l'ambiente assume anche alla luce della autonoma rilevanza costituzionale.
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Sorvolando rapidamente sulla questione affrontata dal giudice circa l'ultimo capo d'imputazione e per il quale l'imputato è stato condannato [che ad eccezione di un ininfluente (15) contrasto giurisprudenziale (16) non presenta particolari difficoltà ermeneutiche], sia consentito passare a qualche breve considerazione conclusiva.
Il legislatore all'aumentare delle aggressioni all'ambiente, sia in termini numerici sia in termini di portata degli effetti di queste, non riesce né ad adeguare il proprio apparato sanzionatorio, né a prevedere fattispecie di delitto appositamente create per le specificità del settore ambientale, così non riuscendo a superare l'attuale impostazione in base alla quale ha preferito piuttosto tipizzare i reati ambientali come reati contravvenzionali, caratterizzati da modesta portata ed oblazionabilità.
Ciò ha obbligato già da tempo la giurisprudenza penale a superare il proprio tradizionale ruolo di interprete della legge per svolgere un ruolo di supplenza nei confronti del legislatore attraverso il ricorso, nell'esercizio della propria funzione giudicante, a fattispecie originariamente introdotte per altri fini: ciò attraverso l'estensione della portata originaria di dette fattispecie, finalizzando l'azione giudiziaria all'innalzamento dei livelli di tutela dell'ambiente, man mano che il «valore ambientale» assumeva sempre maggiore rilevanza all'interno dell'ordinamento.
Tale azione adeguatrice (come purtroppo spesso accade per i «rimedi») anche se opportuna non è stata indolore per l'ordinamento, ma soprattutto troppo spesso si è rivelata inefficace (17) e contraddittoria.
L'estensione della portata di detti reati attuata dal giudice, infatti, porge il fianco, da una parte, al possibile snaturamento della fattispecie penale prevista rispetto a come era stata originariamente pensata dal legislatore; dall'altra ciò comporta un incremento a volte eccessivo di discrezionalità in capo al giudice stesso che si trova a doversi far carico (ammesso che se la senta) di dette possibili forzature. Le conseguenze di tale innalzamento dei livelli di discrezionalità giudiziaria derivante dall'aumento di fluidità nei limiti tra esistenza o meno degli elementi costitutivi del reato, può comportare il raggiungimento di posizioni opposte nella soluzione di fattispecie concrete analoghe, il tutto con buona pace della certezza del diritto. Infine l'estensione interpretativa della portata degli elementi del reato, finalizzata al miglioramento dei livelli di tutela dell'ambiente potrebbe determinare l'inclusione nel reato stesso di altre fattispecie concrete che né il legislatore né il giudice intendevano ricomprendere.
La soluzione reale del problema non può quindi che passare da un adeguamento del diritto penale (18), in forma coordinata con tutti gli altri elementi che compongono il sistema giuridico di tutela dell'ambiente, provvedendo ad inserire apposite ipotesi di reato legate alla tutela del bene ambiente al fine di perseguire sanzioni efficaci, proporzionate e realmente dissuasive.
D'altra parte, in tale contesto, il legislatore nazionale non può ignorare la problematica, oggi di estrema attualità, degli effetti del diverso trattamento delle medesime ipotesi di reato in Stati diversi. Infatti in ordinamenti strettamente interconnessi, come quelli odierni rappresentati dai paesi membri dell'Unione europea (19), il mancato perseguimento di un quadro uniforme di punibilità dei reati ambientali all'interno del mercato comunitario comporta un fenomeno di c.d. dumping ambientale (20) da parte di chi attua in maniera organizzata illeciti ambientali, con rilevanti conseguenze in termini di effetti socio-economici diretti ed indiretti per i paesi coinvolti.
La sentenza qui annotata rappresenta quindi uno dei più recenti esempi, anche se sicuramente non l'ultimo visto il ritardo legislativo in cui versa la riforma del diritto penale ambientale in Italia, di detta azione adeguatrice, attuata attraverso l'interpretazione giudiziaria, del diritto formale alla luce delle necessità materiali dell'ordinamento, sempre più impellenti, di tutela dell'ambiente.


Note
(1) Su cui più in dettaglio AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, II, 2001, 155-251; con specifico riferimento invece alla tutela penale dell'ambiente cfr. RAMACCI, Diritto penale dell'ambiente, Padova, 2007, 70 s.; più in generale, da ultimo, v. DI SALVO, Colpa cosciente e dolo eventuale, diretto e alternativo, in questa Rivista, 2009, 435-447.
(2) Su cui almeno v. FIMIANI, La tutela penale dell'ambiente dopo il D.Lgs. 4/2008, Milano, 2008; ma anche RAMACCI, op. cit.
(3) In tal senso Cass. 6 novembre 1984, n. 2386, dove peraltro veniva aggiunto anche che «Il reato sussiste anche quando l'azione sia posta in essere non al diretto scopo di provocare danno, bensì quale mezzo per conseguire uno scopo diverso».
(4) Così Cass. 8 aprile 2003, n. 33062.
(5) A titolo di esempio da ultimo, Trib. Roma 16 novembre 2007, Est. Scozzarella, in cui il giudice ancora una volta esercitando un'ampia discrezionalità ha, al contrario del caso in esame, riconosciuto l'esistenza del dolo eventuale (se non quello diretto) nel fatto di chi causa lesioni personali a seguito di incidente stradale provocato procedendo contromano su un raccordo autostradale imboccando sempre contromano uno svincolo, senza attuare nessuna cautela volta a segnalare la propria presenza. Su cui v. DI SALVO, op cit.
(6) Sulle diverse impostazioni della dottrina e della prassi applicativa circa il riconoscimento o meno della presenza della «colpa cosciente» o del «dolo eventuale» v. MANTOVANI, Colpa e preterintenzione, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, op. cit., 236 s.
(7) Così Cass. 25 agosto 1964, n. 1291, dove si legge che «Il reato di disastro colposo richiede, quali elementi costitutivi, una condotta colposa in nesso di causalità con un evento di danno che colpisce collettivamente, con effetti straordinariamente gravi, complessi ed estesi, cose e persone, generando pubblica commozione»; ma anche Cass. 17 marzo 1981, n. 7387, dove si ribadisce che «Deve intendersi per disastro un evento di danno, che espone a pericolo collettivamente, con effetti gravi, complessi ed estesi, un numero indeterminato di persone, generando pubblica commozione»; da ultimo Cass. 16 gennaio 2008, n. 9418, dove si legge «il requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 c.p. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane».
(8) Così Cass. 11 ottobre 2006, n. 40330; ma anche Cass. 12 dicembre 1989, n. 11486; Cass. 20 dicembre 1989, n. 1686; Cass. 4 ottobre 1983, n. 1616.
(9) Sul rapporto tra giudice e tutela penale dell'ambiente cfr. FIMIANI, La giurisprudenza nell'evoluzione del diritto ambientale, in di Plinio - Fimiani (cur.), op.cit., 182-192.
(10) Così Cass. 20 aprile 2006, n. 20370.
(11) Su cui Cass. 16 dicembre 2004, n. 48402, in cui veniva affermato che «Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione»; più specificamente sul danno ambientale cfr. PRATI, Il danno all'ambiente nel T.U. tra interesse diffuso e posizioni soggettive, in Ambiente, 2007, 7, 577; sugli aspetti civilistici, invece, cfr. POZZO, La responsabilità civile per danni all'ambiente tra vecchia e nuova disciplina, in Riv. giur. amb., 2007, 815-822.
(12) Sul ruolo della causalità scientifica all'interno del reato colposo, e nello specifico relativamente al reato di disastro colposo, cfr. MUSACCHIO, La responsabilità penale dei costruttori e dei progettisti nelle ipotesi di crollo di edifici, in questa Rivista, 2008, 479-490.
(13) Su cui Cass. 16 dicembre 2004, n. 48402 dove si è rilevato che «Il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali)».
(14) Sul tema cfr. TORTI, La legittimazione ad agire degli enti esponenziali per la tutela dell'interesse collettivo alla salubrità dell'ambiente, in Dir. pen. e proc., 2005, 1365.
(15) Poiché sia in base alla normativa vigente all'epoca dei fatti, sia in base a quella odierna, l'imputato con gli smaltimenti effettuati aveva superato sia i limiti attualmente previsti dalla normativa che quelli all'epoca vigenti e che conseguentemente hanno imposto i relativi obblighi di bonifica, sia non aveva adempiuto alle conseguenti disposizioni emesse a riguardo dal Comune di Milano.
(16) Tra Cass. 14 marzo 2007, n. 26479 e Cass. 29 novembre 2006, n. 9794, in quanto la prima ritiene più grave, la seconda meno, la disposizione dell'art. 257 d.lg. n. 152 del 2006 rispetto a quella precedentemente vigente e prevista nell'art. 51-bis d.lg. n. 22 del 1997.
(17) Risulta sconfortante leggere quanto riportato ben oltre dieci anni fa nella relazione sull'introduzione nel codice penale del Titolo VI-bis. «Delitti contro l'ambiente e disposizioni sostanziali e processuali contro il fenomeno criminale dell'Ecomafia», approvato dalla «Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse» nella seduta del 26 marzo 1998, dove si legge testualmente: «La normativa in materia ambientale varata nel corso degli ultimi anni ha determinato un quadro interpretativo ed applicativo non omogeneo e spesso mal coordinato. Essa, a livello sanzionatorio, oltre ad alcune ipotesi di sanzioni amministrative, non prevede fattispecie di delitto, tipizzando i reati ambientali come reati contravvenzionali, quasi sempre di modesta portata ed oblazionabili. L'effetto deterrente e repressivo è dunque scarso. A fronte di attività illecite nel contesto delle quali si è inserita, con un lucroso profitto, la criminalità organizzata, detto effetto è praticamente nullo, giacché le modeste sanzioni delle leggi speciali sono del tutto inadeguate a fronteggiare e scoraggiare i vantaggi economici miliardari che determinano. E, soprattutto, i mezzi procedurali operativi che tale regime affida alle forze di polizia ed alla magistratura non sono efficaci e conseguentemente le potenzialità investigative risultano estremamente stressate da tali limitazioni genetiche. È un dato di fatto che le organizzazioni criminali hanno ormai individuato nel campo ambientale, ed in particolare nel traffico dei rifiuti, nella speculazione edilizia e nella gestione delle attività di recupero ambientale, un nuovo e vantaggiosissimo business, di interesse pari a quello del traffico di droga ma con rischi bassissimi o, più realisticamente, del tutto inesistenti. Le associazioni criminali cosa nostra siciliana, sacra corona unita pugliese, 'ndrangheta calabrese, camorra napoletana e casertana che sono interessate al traffico dei rifiuti, in particolare dal nord al sud dell'Italia, a prescindere dalle particolarità di ciascuna associazione, dagli assetti organizzativi localmente adottati e dai mutamenti comportamentali che periodicamente possono essere determinati da specifiche contingenze di tempo e di luogo, appaiono caratterizzate da aspetti comuni quali, tra gli altri, lo stabile controllo del territorio. Si impone, dunque, un adeguamento legislativo che, preso atto di tale realtà ormai indiscussa, fornisca alla polizia giudiziaria nuovi e più penetranti strumenti investigativi, ed alla magistratura più idonei regimi sanzionatori proporzionati alla gravità dei fatti posti in essere. Fatti che, va ribadito, non sono più, in molti casi, semplici infrazioni commesse da privati per isolati casi soggettivi, ma diventano il prodotto di un disegno criminoso a vasto respiro e con effetti devastanti per l'ambiente. Va peraltro rilevato che ogni violazione o illecito nel settore del traffico dei rifiuti, nell'attività di raccolta, trasporto e smaltimento (tranne le specie minori come l'abbandono), sono connesse con frodi fiscali, e, di conseguenza, l'accertamento degli illeciti nel settore favorisce anche l'accertamento delle frodi fiscali», Doc. XXIII, n. 5 Prot. n. 4511/RIF del 22 aprile 1998 e reperibile in http://www.camera.it/ _dati/ leg13/ lavori/ doc/ xxiii/ 005/ d020.htm.
(18) Su cui con taglio critico cfr. LO MONTE, Uno sguardo sullo schema di legge delega per la riforma dei reati in materia di ambiente: nuovi «orchestrali» per vecchi «spartiti», in Dir. pen. econ., 2008, n. 1-2 gennaio-giugno, 55-109; ma anche MUSCATIELLO, Aspettando Godot, in Dir. pen. e proc., 2007, 1521-1532; BERTUZZI, Delitti in materia ambientale: in arrivo l'inserimento nel codice penale, in Ambiente &Sviluppo, 2007, 7 e 8, 595-598.
(19) Su tale problematica più in dettaglio cfr. KARAMAT, La politica dell'Unione Europea in relazione alle sanzioni ambientali. Proposte per una direttiva sulla tutela dell'ambiente attraverso il diritto penale, in Riv. giur. amb., 2008, 1, 7-17; ma anche SIRACUSA, Tutela ambientale: Unione europea e diritto penale fra decisioni quadro e direttive, in Dir. pen. e proc., 2006, 6, 773; MARCOLINI, Decisione quadro o direttiva per proteggere l'ambiente attraverso il diritto penale?, in Cass. pen., 2006, 243; BIANCHI, La tutela penale dell'ambiente e la pronuncia della Corte europea del 13 settembre 2005, in Ambiente &Sviluppo, 2006, 1, 33-39; MUSCATIELLO, La tutela penale dell'ambiente e il terzo scacchiere, in Dir. pen. econ., 2005, 701-754; ma anche, SCHIANO DI PEPE, Competenze comunitarie e reati ambientali: il «caso» dell'inquinamento provocato da navi, in Dir. U.E., 2006, 4, 769-792; MANNA, PLANTAMURA, Una svolta epocale per il diritto penale ambientale, in Dir. pen e proc., 2007, 8, 1075; in ottica comparata con il caso spagnolo invece v., FUGGETTI, Modelli a confronto nella tutela penale dell'ambiente: l'esperienza spagnola, e il tentativo di definire il bene giuridico presidiato, in Dir. pen. econ., 2008, 1-2, 340-419.
(20) Infatti diversi livelli di severità delle norme penali di tutela dell'ambiente comportano di fatto lo spostamento delle attività criminose a questi legate proprio in quei paesi con livelli repressivi più blandi o inesistenti, nonostante in seguito gli effetti del reato ricadano sull'intera Comunità a causa del carattere della transnazionalità degli effetti dei reati ambientali.