di Luca Partesotti
1. IntroduzioneIl profilo sotto cui ci si propone di inquadrare il tema del danno ambientale è quello della sua valutazione, cioè, in definitiva, della sua quantificazione. L’ottica in cui porsi è, dunque, quella degli strumenti giuridici, intesi come possibilità concrete di agire o comunque di stare in giudizio sulla base di norme e criteri definiti legislativamente ed elaborati dalla giurisprudenza, da parte di privati cittadini, delle associazioni che si fanno portatrici di interessi collettivi nel campo ambientale, e soprattutto da parte degli enti territoriali (comuni, provincie e regioni) e dello Stato. Si dovrà, quindi, fornire il quadro giuridico di riferimento all’interno del quale economisti, scienziati dell’ambiente ed altri esperti del settore si muovono per fornire il supporto indispensabile per la quantificazione del danno all’ambiente ai fini di una sua possibile riparazione, in via diretta e/o per equivalente. Le norme cui ci si deve riferire sono principalmente quelle interne, cioè nazionali, ma anche i principi consolidati e le indicazioni che ci giungono dalla normativa europea. Non ci si può esimere, d’altronde, dal riferimento ai criteri elaborati in altri ordinamenti al fine di giungere a valutare e quantificare il danno all’ambiente in maniera il più possibile precisa e standardizzata. Anche se, poi, proprio l’ordinamento straniero più utile allo scopo, quello statunitense, è giunto ad introdurre la più ampia possibilità di adottare criteri atipici e discrezionali per addivenire ad una quantificazione monetaria del danno ambientale. E’ evidente che ci si pone nel campo della tutela civile per lesione all’ambiente. Solo indirettamente si farà riferimento al processo amministrativo, al fine di rilevare la possibilità di agire per chiedere l’annullamento di un atto amministrativo (o contro il silenzio dell’amministrazione). Per quanto concerne il processo penale, il riferimento va all’azione civile esercitata nel processo penale, cioè alla richiesta risarcitoria avanzata in ipotesi di danno ambientale attraverso la costituzione di parte civile da parte di enti, associazioni e cittadini.
2. Il quadro normativo, giurisprudenziale e la definizione di ambiente
E’ utile proporre alcune definizioni, non per necessità scolastica, ma perché così si tende sempre più a procedere anche in sede legislativa, specie quando il nostro legislatore recepisce ed attua la normativa comunitaria. Non troviamo, in realtà, una definizione di ambiente posta dal legislatore italiano in riferimento all’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, che è la norma fondamentale in materia di danno ambientale. In essa si definisce il danno ambientale quale compromissione dell’ambiente, alterazione, deterioramento o distruzione totale o parziale dello stesso conseguenti ad un fatto doloso o colposo che violi leggi o provvedimenti; la definizione di ambiente, tuttavia, va cercata altrove. La giurisprudenza della Corte Costituzionale, anzitutto. Nella sentenza 30.12.1987, n. 641 si parla di ‘habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce’. Ancor prima (sentenza Corte Costituzionale 28.5.1987, n. 210), si concepisce l’ambiente come entità ‘comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali’. La successiva elaborazione ha individuato il concetto di ‘ambiente salubre’, così connettendo ambiente e salute sulla base delle norme costituzionali (art. 32): si vedano le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1467 del 1979, fino alla n. 5650 della 3^ sezione civile della stessa Corte del 25.9.1996. In essa si configura l’ambiente come bene giuridico unitario con valori fondamentali individuati negli aspetti estetico-culturale, igienico-sanitario ed ecologico-abitativo. Si asserisce che l’ambiente come bene giuridico è previsto e tutelato già e direttamente nella Costituzione (artt. 2, 3, 91, 41 e 42), al di là e prima ancora delle previsioni di cui alla legge n. 349/1986 istitutiva del Ministero dell’ambiente. Come si vede, non si tratta di definizioni normative del bene ambiente strettamente intese; le norme costituzionali citate concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale ed ambientale, ed in tale contesto sono state individuate quali norme regolatrici del diritto all’ambiente. Se cerchiamo, però, una definizione più precisa, la possiamo trovare, pur tenendo a mente che il bene ambiente va sempre considerato in modo unitario, nell’allegato I al D.P.C.M. 27.12.1988, recante “Norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale e per la formulazione del giudizio di compatibilità ai sensi dell’art. 6 della legge n. 349/86”. E’ stato affermato in dottrina, con argomentazione condivisibile, che “appare ragionevole che la nozione di ambiente che orienta l’azione preventiva possa essere ritenuta valida anche in sede di tutela giurisdizionale” (Vivani). Dopo aver nel 1° comma disposto che lo studio di impatto ambientale deve prendere in considerazione sia le componenti naturalistiche che quelle antropiche, le interazioni tra le une e le altre e con l’ambiente inteso in senso globale, si precisa nel secondo comma: “Le componenti e i fattori ambientali sono così intesi: a) atmosfera: qualità dell’aria e caratterizzazione meteoclimatica; b) ambiente idrico: acque sotterranee e acque superficiali (dolci, salmastre e marine), considerate componenti, come ambienti e come risorse; c) suolo e sottosuolo: intesi sotto il profilo geologico, geomorfologico e pedologico, nel quadro dell’ambiente in esame, ed anche come risorse non rinnovabili; d) vegetazione, flora , fauna: formazioni vegetali ed associazioni animali, emergenze più significative, specie protette ed equilibri naturali; e) ecosistemi: complessi di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile (quali un lago, un bosco, un fiume, il mare) per propria struttura, funzionamento, ed evoluzione temporale; f) salute pubblica: come individui e comunità; g) rumore e vibrazioni: considerati in rapporto all’ambiente sia naturale che umano; h) radiazioni ionizzanti e non ionizzanti: considerate in rapporto all’ambiente sia naturale che umano; i) paesaggio: aspetti morfologici e culturali del paesaggio, identità delle comunità umane interessate e relativi beni culturali”. Da sottolineare particolarmente sono due aspetti. Il primo è che tra le componenti ed i fattori ambientali rientra tutto ciò che può influire sulla salute dell’uomo; il secondo è l’inserimento tra questi del patrimonio culturale ed umano. Si pensi all’importanza dei medesimi in tema di parchi, ove l’aspetto antropico e culturale, e di salubrità anche delle attività economiche è sempre più al centro dell’attenzione (si veda la proposta di legge di iniziativa popolare della Regione Veneto per l’istituzione del Parco della laguna di Venezia). Sempre sul piano definitorio, se passiamo al piano comunitario, possiamo far riferimento, tra le varie direttive in questa materia, all 85/337 (modificata dalla 97/11), dove, all’art. 3, si legge: “La valutazione dell’impatto ambientale individua, descrive e valuta … gli effetti diretti ed indiretti di un progetto sui seguenti fattori: - l’uomo, la fauna e la flora; - il suolo, l’acqua, l’aria, il clima e il paesaggio; - l’interazione fra i fattori di cui al primo, secondo e terzo trattino”. La definizione è sovrapponibile a quella interna già illustrata: è importante la sottolineatura dell’interazione tra i vari fattori ambientali. Il Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente presentato il 9.2.2000 dalla Commissione delle Comunità europee, che segue il cd. libro verde del 1993, proponendosi di rendere efficace il principio ‘chi inquina paga’, attraverso l’adozione di appositi strumenti, raccomandazioni o direttive, dà ora qualche ulteriore indicazione. Troviamo all’interno di esso, infatti, il concetto di ambiente tutelato in quanto bene a sé stante. Pur senza addentrarsi in una definizione vera e propria di ambiente, ci si riferisce purtuttavia al concetto di biodiversità, intesa come varietà delle forme di vita animali e vegetali presenti negli ecosistemi naturali. Si tratterà oltre delle altre indicazioni che ci vengono dal libro bianco.
3. Il danno all’ambiente e la responsabilità conseguente. La valutazione del danno.
Senza voler dar conto della nozione di ambiente che viene adottata nei diversi sistemi legislativi nazionali, può in estrema sintesi essere rilevato che aderiscono ad una nozione limitata, ristretta, tradizionale, anche nazioni che, come gli Stati Uniti d’America, adottano sistemi molto avanzati sotto il profilo della tutela ecologica. Da ciò discende che non necessariamente all’adozione di una definizione ampia di ambiente comprendente sia la protezione dei beni ambientali tradizionalmente intesi (suolo, acque, aria, flora e fauna) che di valori prima ritenuti autonomi (paesaggio e patrimonio artistico) corrisponde poi effettività ed efficacia della tutela. Tra i paesi che hanno adottato una nozione ampia di ambiente, come tale tutelabile in via diretta, possono annoverarsi l’Italia, il Portogallo, la Francia; la legislazione tedesca accorda una tutela indiretta al bene ambiente, considerando i danni alle persone ed alle cose che possono derivare da immissioni nocive nello stesso, adottando al contempo un efficace sistema di responsabilità oggettiva. A differenza, dunque di quanto previsto nel nostro ordinamento, ove l’art. 18 della legge 349/86, pur nell’ambito di un sistema che vorrebbe tutelare l’ambiente anche come valore in sé, configura un tipo di responsabilità conseguente solo a comportamenti dolosi o colposi. Le norme positive nel nostro ordinamento sono le seguenti. L’art. 18 della legge 8 luglio 1998 n. 349, così dispone al primo comma: “Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risanamento nei confronti dello Stato”. L’art. 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 (cd. decreto Ronchi) dispone al comma secondo: “Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a, (si tratta dei limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee) ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento. ..”. L’art. 58 del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152 dispone al comma primo: “Chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero deriva il pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui all’art. 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22.”. A livello europeo, in tema di danno ambientale e di principi ispiratori per la tutela dell’ambiente, dobbiamo riferirci all’art. 174 (ex 130 R) del Trattato CE che dispone al comma 2: “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della prcauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’.” Quel che qui rileva, trattando di responsabilità per danno all’ambiente e sua valutazione. è naturalmente il principio ‘chi inquina paga’, alla cui specificazione mira il Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente del 2000. L’intento è quello di giungere ad una normativa a livello comunitario che non si limiti a prevedere i danni causati alle persone, alle cose ed ai siti (con contaminazione di acque e suolo), ma anche il danno alla natura, inteso come danno alla biodiversità (par. 4.5.1). Quest’ultimo si può configurare come danno agli habitat, alla flora ed alla fauna selvatica, nonché ad alcune specie di piante, come specificato nelle direttive ‘Habitat’ e ‘Uccelli selvatici’. Quanto ai criteri di valutazione si distinguono, sulla base di un’analisi costi-benefici, i casi in cui il ripristino sia fattibile, in cui si dovrà partire dal costo del ripristino, comprensivo dei costi per la valutazione del danno, da quelli in cui il risanamento sia tecnicamente impossibile o solo parzialmente.. Viene sottolineata l’importanza di sviluppare appositi criteri per valutare i benefici offerti dalla risorsa ambientale e di sviluppare base di dati sul ‘trasferimento dei benefici’, come EVRI (Environmental Valuation Resource Inventory). Il ripristino, dovendo riportare la risorsa naturale allo stato in cui si trovava prima del danno, presuppone la valutazione di detto stato, tenuto conto di altri fattori quali la funzione e l’uso futuro presunto. Nel caso in cui il risanamento non sia tecnicamente possibile, il suggerimento del libro bianco è quello di basare la quantificazione del danno sui costi delle soluzioni alternative finalizzate all’introduzione nell’ambiente di risorse equivalenti a quelle compromesse. Per quanto riguarda il danno ambientale derivante dalla contaminazione dei siti, si propone l’armonizzazione di obiettivi e criteri di risanamento europeo, secondo il criterio della contaminazione ‘significativa’. Il danno tradizionale, infine, è inteso come danno alle persone o alle cose ove causato da attività pericolose: saranno i singoli Stati a definire questo tipo di danno: in sede comunitaria si definiscono le attività pericolose. Da notare che, dopo aver indicato alcune di queste tipologie di attività ed aver rimandato ad altre successive elaborazioni, si accenna ad attività, come quelle concernenti gli o.g.m. (organismi geneticamente modificati) , che, pur in sé non pericolose, potrebbero però provocare gravi danni alla salute o all’ambiente, e perciò rientrare nel regime di responsabilità comunitario. 3.1 La valutazione del danno: la normativa interna. I criteri di cui al comma sesto dell’art. 18 L. 349/86 e la giurisprudenza Il cardine del sistema normativo sulla quantificazione del danno è l’art. 18 della legge 349/86. Prima di soffermarsi ad analizzare i criteri che questa norma introduce per quantificare il danno ambientale, va rilevato come la particolare natura del bene ambiente ponga il problema del risarcimento dei beni collettivi posti fuori dal mercato, in quanto caratterizzati dall’indivisibilità e dalla fruizione collettiva. La giurisprudenza costituzionale (sentenza 30 dicembre 1997, n. 641) ha comunque confermato che il bene ambiente, pur non essendo appropriabile, “si presta ad essere valutato in termini economici” e che allo stesso “può attribuirsi un prezzo”. “Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa” . Va osservato innanzitutto che la norma va coordinata con quanto dispone il comma ottavo: “Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile”. La riduzione in pristino è quindi il primo obiettivo da raggiungere, ma la sua scarsa effettività è stata determinante per l’introduzione di norme che obblighino a mettere in sicurezza, bonificare e ripristinare i siti inquinati. Già il decreto legislativo n. 22/97 (decreto Ronchi), superando l’art. 18 che presuppone violazione norma o provvedimento e dolo o colpa, obbliga, nell’art. 17, in tema di rifiuti, col solo presupposto del superamento dei limiti di accettabilità, a mettere in sicurezza e bonificare i siti compromessi; tale obbligo sussiste anzi anche nel caso di mero pericolo di superamento dei limiti stessi, ed anche nelle ipotesi che detto superamento e pericolo siano causati da fatti accidentali. Siamo nell’ambito della responsabilità oggettiva. L’art. 58 del decreto legislativo n. 152/99 introduce invece un criterio di responsabilità per comportamenti omissivi o commissivi, rimandando comunque all’art. 18 della legge 349/86 per il risanamento del danno non eliminabile con la bonifica e d il ripristino ambientale. Tornando dunque a tale norma, i criteri di valutazione del danno sono ancorati, nel caso di impossibile quantificazione precisa (il che è la regola in questa tipologia di danni) a tre criteri individuati dal sesto comma: la gravità della colpa, il costo del ripristino ed il profitto del trasgressore. Spetta ad economisti e scienziati dell’ambiente, e comunque ad esperti di settore, riempire di contenuti economici il più possibile precisi i criteri del costo del ripristino e del profitto del trasgressore. Quel che si rimarca è il chiaro profilo punitivo di questi parametri, in primis quello della gravità della colpa, ma anche gli altri. Il costo del ripristino, ad esempio, rientra in gioco per quantificare il danno in via equitativa, al di là e indipendentemente da quanto prevede il comma ottavo, cioè il ripristino a spese del trasgressore, ove possibile. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha confermato che nei criteri di cui al comma sesto dell’art. 18 L. 349/86 si riconoscono “elementi chiaramente sanzionatori” (Cass., sez. I, 1.9.1975, n. 9211), mentre in dottrina si è evidenziato il richiamo all’esperienza americana dei Punitive Damages. Limitata appare, comunque, la giurisprudenza pubblicata che affronta specificamente il problema della quantificazione del danno. 3.2 I casi Patmos, Haven, Vajont Si richiama spesso una decisione del Pretore di Rho che risale al 1989, ove però, dopo l’esame dei parametri di legge, si giunge ad una quantificazione (500 milioni di lire in relazione all’inquinamento di un torrente) che non precisa i passaggi concreti effettuati per giungere a tale liquidazione. Si possono rammentare le sentenze relative al caso Patmos (collisione e incendio, con diverse vittime e fuoriuscita di 1300 tonnellate di greggio presso Messina nel 1985). La sentenza della Corte d’Appello di Messina del 30.3.1989 seguì una consulenza tecnica che aveva valutato il decremento consistente della concentrazione di plancton, ed altri danni minori alla fauna. Da ciò si calcolava la quantità di pesce presumibilmente non pescato a causa dell’incidente e si calcolava il danno sulla base del suo prezzo al mercato all’ingrosso. La Corte respinse questa quantificazione, in considerazione del fatto che l’ambiente va considerato nel suo valore d’uso e che il parametro da considerare non è il prezzo di mercato delle risorse distrutte o danneggiate, quanto la diminuita fruibilità dell’ambiente da parte della collettività. Non rigetta però completamente il dato fornito dai consulenti, ne tiene conto e quantifica in oltre 2 miliardi di lire il danno all’ambiente. Nel valutare questa sentenza, va tenuto conto tuttavia che da un lato i fatti erano anteriori alla legge 349/86 e dall’altro che risultano applicabili in questi casi le particolari convenzioni internazionali relative agli inquinamenti marini da idrocarburi (in particolare si veda la Convenzione di Bruxelles del 1969 nota come CLC e quella, sempre di Bruxelles del 1971 che istituisce un apposito fondo per i risarcimenti, Fund Convention). Nel caso Haven le pretese risarcitorie dello Stato sono state soddisfatte con uno specifico accordo transattivo con l’International Oil Pollution Compensation Fund, di cui sopra, autorizzato con legge 16 luglio 1998 , n, 239. A tal proposito si può appena accennare al fatto che se il diritto all’ambiente è un diritto assoluto, indisponibile, come si tende in giurisprudenza a configurare, si pone il problema della sua prescrittibilità o meno, della possibilità o meno di configurare una transazione su di esso, e dell’obbligatorietà o meno dell’azione di danno. Per tornare ai casi piu’ rilevanti di quantificazione e risarcimento dei danni, va menzionato il caso Vajont, per il quale il Tribunale di Belluno, con sentenze confermate in appello e Cassazione, riconobbe (il 20.6.1988, sentenza n. 58) ai Comuni di Erto e Casso tre voci di danno: il danno conseguente alla perdita di beni patrimoniali e demaniali, un danno patrimoniale derivante dalla perdita parziale della popolazione e delle conseguenti attività, un danno non patrimoniale generale ‘per danno ambientale ed ecologico’. Entrano tuttavia in gioco in questo caso altri aspetti, quali la riferibilità allo Stato o anche agli altri enti territoriali del danno ambientale e del suo risarcimento, la natura patrimoniale o meno di detto danno, e altri. Solo un cenno al primo punto, anche perché la recente legge n. 265/1999, al 3° comma dell’art. 4 ha significativamente inciso sul sistema della legittimità ad agire: “ . Le associazioni di protezione ambientale di cui all'art. 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione.” L’art. 18, 3° comma L. 349/86 dispone che l’azione di risarcimento del danno ambientale è promossa dallo Stato, nonchè dagli enti territoriali. Il 1° comma prevede poi l’obbligo di risarcimento solo verso lo Stato. Un’interpretazione restrittiva esclude che soggetti diversi dallo Stato inteso come Stato amministrazione possano avere titolo al risarcimento del danno ambientale.. Un altro indirizzo ritiene che lo Stato va inteso in senso ampio, comprensivo anche degli enti territoriali. (v. sentenza Cass. Civile, III^ sez., 21.5.1996 n. 5650). La legge 265/99, nel conferire importanti poteri alle associazioni ambientaliste individuate ex art. 13 della legge n. 349786, dando alle stesse lo status di sostituto processuale di Comune e Provincia nelle azioni risarcitorie conseguenti al danno ambientale, sembra presupporre l’autonomo diritto al risarcimento da parte degli enti sostituiti, cui spetta anche se ad agire per gli stessi enti siano le associazioni ambientaliste. 3.3. L’esperienza statunitense (CERCLA) Per riempire di contenuti concreti i parametri di valutazione equitativa del danno di cui all’art. 18, c. 6 della L. 349/86, bisogna volgere lo sguardo all’esperienza di dottrina e giurisprudenza desumibile dalle decisioni delle Corti statunitensi e dallo stesso sistema del Comprehensive Environmental Response Compensation and Liabilty Act (CERCLA), nonché dai principali ‘statutes’ di protezione dell’ambiente (Clean Air Act, Clean Water Act ecc.). Si è visto che la possibilità di utilizzare criteri e riferimenti di provenienza esterna, oltre che giustificata dalla necessità di far riferimento a standard di tecniche riconosciute internazionalmente, trova la sua fonte anche in documenti della Comunità europea, quali il Libro bianco del 2000 già citato che valorizza il già citato EVRI (Environmental Valuation Reference Inventory, cioè del database che contiene informazioni su circa 700 studi di valutazione, utilizzato prima dal Canada, poi dall’EPA statunitense, ed ora anche in Europa. Ci si riferisce in primo luogo alle cd. Damage Assessment Rules, utilizzate per attuare il CERCLA ed il Clean Water Act. In sintesi, questi criteri indirizzano la fase di quantificazione vera e propria del danno sulla base dell’analisi di diversi fattori quali la situazione preesistente, le utilità che le risorse ambientali assicuravano, la riduzione delle stesse, l’estensione del danno e la possibilità di reintegrazione dell’ambiente compromesse. Nella fase di determinazione monetaria propriamente detta si valutano le voci di danno correlate al valore dell’uso ricreativo o altro del bene ed ogni altra utilità economica derivante da detti beni. Nelle ipotesi di insufficienza dei criteri suddetti si fa ricorso ai due metodi dei costi di viaggio (Travel Cost Analysis) e dei prezzi edonisti (Hedonic Pricing), ed in via residuale al metodo della valutazione contingente (Contigent Valuation). Questi metodi fanno riferimento al concetto generale di disponibilità teorica a pagare per fruire delle utilità derivanti dalle risorse ambientali. La Travel Cost Analysis è utile per parchi e aree tutelate, ma non per zone incontaminate ed inaccessibili. L’Hedonic Pricing fa leva sul nesso tra beni apprezzabili economicamente (es. immobili) ed ambiente, ma non sempre tale nesso è facile da individuare. La Contingent Valuation si fonda invece sulla disponibilità a pagare per la conservazione di un certo bene, o sulla somma che si è disposti ad accettare in compensazione di un danno ecologico. In questo caso sembre essere presa maggiormente in considerazione il valore complessivo del bene. Si noti comunque che anche negli Stati Uniti d’America si è introdotta alla fine la possibilità di utilizzare criteri non codificati (caso Ohio v. United States Department of Interior, 1996). Tornando al sistema interno, val la pena di richiamare un caso di norma, l’art. 58 del decreto legislativo n. 152/99 (acque), di cui si tratterà ancora, che precisa e quantifica in una somma pari alla sanzione pecuniaria amministrativa, ovvero alla sanzione penale in concreto applicata il risarcimento del danno cagionato all’ambiente che non si possa quantificare altrimenti. In caso di condanna penale a pena detentiva, il ragguaglio si effettua calcolando L. 400.000 per ogni giorno di pena detentiva. Il criterio, discutibile e certo riduttivo, può portare a sottostimare il danno: resta forse utile nei casi di inquinamento di minime proporzioni, ove l’alterazione ambientale è poco percepibile, ma vi è stata.
4. La titolarità dell’azione e la responsabilità per danno ambientale
Il quadro della valutazione del danno ambientale va completato, seppur sommariamente, sotto due profili, cui già si è fatto cenno. Uno è quello della titolarità dell’azione e del soggetto destinatario del risarcimento. L’altro è quello della responsabilità e dei criteri per individuarla. Il sistema delineato dall’art. 18, 1° comma, come visto, presuppone che si dimostri da un lato che la compromissione dell’ambiente deriva da violazione di norme e regolamenti, dall’altro che l’azione o l’omissione sia frutto di un comportamento doloso, cioè secondo l’intenzione, voluto, o colposo, cioè compiuto per negligenza o imperizia. Questa è la norma generale. Diverso, come già notato, il sistema di cui alla normativa sui rifiuti, decreto Ronchi, e D.M. 25.10.1999 sulla bonifica dei siti inquinati, ove si fa leva su di un sistema di responsabilità oggettiva, cioè indipendente da ogni valutazione del profilo psicologico del comportamento, che è poi il sistema cui tende anche la normativa europea (par. 4.3 Libro bianco 2000). L’art. 17 del decreto leg.slativo n. 22/97 esclude al 2° comma che ci si possa esimere da responsabilità per cause accidentali e pone la sola condizione del supero dei limiti di legge per imporre gli obblighi di bonifica. Così anche il decreto legislativo n. 152 dell’11.5.1999 sulle acque, che ha comunque ampia portata imponendo obblighi di bonifica a carico di chiunque in violazione delle sue statuizioni “provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali o determina un pericolo concreto e attuale di inquinamento ambientale” (art. 58 citato). 4.1 Il cittadino e le associazioni Ai cittadini l’art. 18, c. 4°, lascia un residuo potere di denuncia dei danni ambientali e di sollecitazione all’esercizio dell’azione di danno da parte dello Stato e degli altri enti territoriali. Altri poteri e diritti, in primis il diritto d’accesso alle informazioni ambientali, sono tuttavia previsti da altre norme, di cui non è questa la sede di trattazione. Certamente, sulla base dei principi generali, un cittadino che vanti una stretta relazione spazio-temporale con le risorse ambientali lese o messe in pericolo, può ricorrere al giudice amministrativo se il suo interesse è leso da un provvedimento amministrativo.. Lo stesso criterio della vicinitas è stato individuato dalla giurisprudenza per legittimare le associazioni di protezione ambientale all’esercizio dell’azione civile nel processo penale, o nel processo amministrativo. In tale processo le associazioni individuate con decreto del Ministro dell’Ambiente ex art. 13 della legge n. 349/86, ma anche altre, secondo l’elaborazione della giurisprudenza, possono agire direttamente per chiedere l’annullamento di atti illegittimi, mentre nel processo civile possono intervenire ad adiuvandum in giudizi promossi dai soggetti pubblici. Come già accennato, l’art. 4 della legge 3 agosto 1999 n. 265 consente però ora alle associazioni individuate come sopra un’azione diretta o in sede civile o con la costituzione di parte civile nel processo penale, quando Provincia e Comune rimangano inerti e non siano presenti o non agiscono per il risarcimento dei danni ambientali. E’ evidente che ciò può essere di stimolo all’azione degli enti territoriali, e potrà consentire di non lasciare senza rimedio (ripristino anzitutto) situazioni di inquinamento locali che non siano state oggetto di attenzione da parte degli enti stessi.
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* I riferimenti all’art. 4 della L. 3 agosto 1999 n. 265 vanno ora intesi all’art. 9 del D. lgt. n. 267 del 18.8.2000 ‘Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali’.