Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4588, del 10 settembre 2014
Aria.Allevamento intensivo di pollame e legittimità diniego A.I.A per immissioni olfattive maleodoranti oltre i limiti di tollerabilità.

Come rilevato dai primi giudici, è stato definitivamente accertato che il funzionamento dell’impianto in questione ha provocato immissioni olfattive che non solo hanno superato i limiti di tollerabilità ex art. 844 c.c, in quanto sono risultate inquinanti e tossiche, essendo irrilevante al riguardo la circostanza del rispetto dei valori limite fissati per le immissioni inquinanti in atmosfera e la presenza dell’autorizzazione disciplinata dal D.P.R. 24 maggio 1998, n. 203. E’ corretto l’operato dell’amministrazione che, ai fini del diniego del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, ha tenuto conto di valutazioni scientifiche specifiche, non irragionevoli, non meramente presuntive, significativamente richiamando sul punto il principio di precauzione, in applicazione del quale, per qualsiasi attività che comporti un pericolo, anche solo potenziale, per la salute umana deve essere previto un alto livello di protezione. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 04588/2014REG.PROV.COLL.

N. 05280/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 5280 del 2013, proposto dalla SOCIETA' AGRICOLA CASTELLO S.S. DI MARCO PALU' & C., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Paola Bologna e Luisa Torchia, con domicilio eletto presso l’avvocato Paola Bologna in Roma, via del Plebiscito, n.107;

contro

REGIONE AUTONOMA FRIULI VENEZIA GIULIA, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica, rappresentata e difesa dall'avv. Vinicio Martini, con domicilio eletto presso l’Ufficio Rappresentanza Regione Autonoma Friuli in Roma, piazza Colonna, n. 355;
ARPA F.V.G. DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI PORDENONE; PROVINCIA DI PORDENONE; CONFERENZA DEI SERVIZI, non costituite in giudizio;
AZIENDA PER I SERVIZI SANITARI N.6 "FRIULI OCCIDENTALE", in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dall'avvocato Vittorina Colò, con domicilio eletto presso l’avv. Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;
COMUNE DI CANEVA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Luca Mazzero, Cristina Cittolin e Luigi Manzi, con domicilio eletto presso l’avv. Luigi Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5; 
COMITATO SALVAGUARDIA DIETRO CASTELLO, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Federico Casa e Giovanni Ferasin, con domicilio eletto presso l’avvocato Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. FRIULI-VENEZIA-GIULIA, Sez. I, n. 2 del 2 gennaio 2013, resa tra le parti, concernente un diniego di autorizzazione integrata ambientale per l'allevamento intensivo di pollame;



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, dell’Azienda per i Servizi Sanitari N.6 "Friuli Occidentale", del Comune di Caneva e del Comitato Salvaguardia Dietro Castello;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 aprile 2014 il Cons. Carlo Saltelli e uditi per le parti l’avvocato Di Nitto, per delega dell’avvocato Torchia, l’avvocato Martini, l’avvocato Mazzeo, in dichiarata delega dell’avvocato Colò, e l’avvocato Mazzeo, per delega degli avvocati Casa e Manzi;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.



FATTO

1. Con decreto n. STINQ – 194 – PN/AIA/33 del 2 febbraio 2012, emesso dal direttore del Servizio Tutela da inquinamento atmosferico, acustico ed elettromagnetico, la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia ha negato alla società Agricola Castello S.S. di Marco Palù & C. l’autorizzazione integrata ambientale richiesta per l’adeguamento alle disposizioni del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, del funzionamento di un impianto, sito nel Comune di Caneva, via Dietro Castello, n. 8, per l’allevamento intensivo di pollame con più di 40.000 ‘posti pollame’, di cui al punto 6.6, lett. a), dell’Allegato VIII alla Parte Seconda del decreto legislativo n. 152 del 2006.

2. Il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, sez. I, con la sentenza n. 2 del 2 gennaio 2013, nella resistenza dell’amministrazione regionale, dell’A.S.L. n. 6 – Friuli Occidentale e del Comune di Caneva e con l’intervento ad opponendum del Comitato Salvaguardia Dietro Castello, ha respinto il ricorso (nrg. 83 del 2012) proposto dalla società Agricola Castello per l’annullamento del diniego, del verbale della Conferenza dei servizi del 20 settembre 2011 e della nota prot. 6209 del 14 febbraio 2012 della Direzione del Servizio competente, oltre che per il risarcimento del danno.

Il TAR ha infatti ritenuti infondati tutti i motivi di censura sollevati (“Difetto di motivazione in ordine alle osservazioni da essa proposte”; “Violazione di legge e difetto di motivazione”; “Illegittimità derivata dalle determinazioni delle autorità partecipanti alla conferenza”; “Illegittimità per violazione di legge, difetto di motivazione e travisamento del fatto”; “Violazione di legge, carenza e perplessità della motivazione, travisamento del fatto” e “Difetto di motivazione e travisamento dei fatti”), in considerazione degli esiti della vicenda penale (e dalle motivazioni delle relative sentenze dei tre gradi di giudizio) che aveva riguardato alcuni amministratori della società ricorrente, imputati del reato di cui all’art. 647 C.P., e da cui era emerso che le emissioni (tossiche) dell’impianto eccedevano la normale tollerabilità (costituendo per ciò reato) e che le stesse, con particolare riferimento al parametro dell’ammoniaca, avevano comportato il superamento dei limiti incidenti sulla salubrità dell’aria, travalicando significativamente la soglia (fissata dall’EPA) di tossicità corrispondente agli standard tecnico–scientifici riconosciuti in sede internazionale: a ciò conseguiva la legittimità del provvedimento impugnato, tanto più che, per un verso, eventuali soluzioni subordinate, alternative, temporanee o condizionate per consentire comunque lo svolgimento dell’attività dell’impianto, oltre a non essere previste dalla normativa vigente, non potevano essere adottate in mancanza di una specifica richiesta della società richiedente, mentre, per altro verso, era del tutto irrilevante, a fronte delle accertate conseguenze dannose provenienti dall’esercizio dell’allevamento, il fatto che quest’ultimo fosse gestito secondo le migliori pratiche possibili.

Il TAR ha ritenuto prive di fondamento anche le censure riguardanti la situazione urbanistico–edilizia della zona, con specifico riferimento alla dedotta, ma insussistente, preesistenza dell’impianto rispetto alle abitazioni.

3. Con atto di appello notificato a mezzo del servizio postale il 26 giugno 2013, la società Agricola Castello ha chiesto la riforma della sentenza del TAR, lamentandone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di quattro motivi di gravame, rubricati in particolare “Error in judicando. Motivazione apparente, perplessa e manifestamente errata. Violazione del giusto processo (art. 111 Cost.). Violazione di legge (art. 654 c.p.p.; art. 64 CPA; art. 2 – 4 – 10 d. lgs. n. 50/2005; art. 12 c.c. preleggi)”; “Error in judicando. Motivazione apparente e manifestamente errata. Violazione del giusto processo (art. 111 Cost.). Violazione di legge (art. 117 comma 1 Cost.; art. 3 Cost.; art. 191 paragrafo 2 Trattato UE; artt. 1 – 2 -3 – 4 – 5 e ss. d.lgs. 59/2005; art. 12 c.c. preleggi”; “Error in judicando. Motivazione apparente e manifestamente errata. Violazione del giusto processo (art. 111 Cost.). Violazione di legge (art. 117 comma 1 Cost.; art. 4 – 41 Cost.; artt. 1 – 2 -3 – 4 – 5 e ss. d.lgs. 59/2005; art. 12 c.c. preleggi”: “Error in judicando. Motivazione apparente e manifestamente errata. Violazione del giusto processo (art. 111 Cost.). Violazione di legge (artt. 1 – 2 -3 – 4 – 5 e ss. d.lgs. 59/2005; art. 844 c.c.; art. 12 c.c. preleggi”.

In sintesi, secondo la società appellante, gli esiti del procedimento penale a carico dei signori Ro. Gu. e Ma. Pa. per violazione dell’art. 647 c.p. non potevano essere posti a fondamento del giudizio di legittimità degli atti impugnati, non sussistendo i presupposti dell’art. 654 c.p.p. (dal punto di vista soggettivo, non vertendo il giudizio amministrativo fra le stesse parti di quello penale, e dal punto di vista oggettivo, in quanto la tossicità delle immissioni odorifere provocate dal funzionamento dell’impianto non conseguiva ad un effettivo accertamento dei fatti, quanto piuttosto ad un’autonoma qualificazione degli stessi da parte del giudice penale; e peraltro la sentenza della Cassazione Penale, sez. III, n. 3707 del 29 maggio 2012 aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato, interamente quanto al sig. Ro. Gu., e in parte, cioè per i fatti commessi fino al 28 maggio 2007, per il sig. Ma. Pa.); peraltro erroneamente ed impropriamente i primi giudici avevano fatto riferimento al principio di precauzione, senza tener conto che esso necessitava di essere puntualmente concretizzato in un’apposita norma, interna e comunitaria, alla stato mancante, risultando irrilevante, ai fini dell’individuazione della tollerabilità delle immissione, il richiamo alle soglie individuate dall’EPA (Agenzia per l’Ambiente Statunitense), ente non riconosciuto a livello europeo, dovendo per contro essere utilizzate solo le BAT, cioè le migliori pratiche possibili.

D’altra parte, sempre secondo la società appellante, ponendo a fondamento del proprio convincimento i limiti individuati dall’EPA, i primi giudici avrebbero concretizzato in suo danno un’inammissibile diversità di trattamento rispetto ad altre aziende ed attività agricole, violando i principi costituzionali di uguaglianza e di libertà dell’iniziativa economica privata, tanto più che, per un verso, l’autorizzazione integrata ambientale aveva la funzione di verificare la compatibilità ambientale di un’attività, prevedendo a tal fine misure idonee per evitare o ridurre ove possibile le emissioni nocive e non di impedirla, mentre, per altro verso, anche con riferimento anche alla concreta situazione edilizia ed urbanistica, il sindaco non è titolare di un potere di veto sull’insediamento o sull’esercizio di attività nocive, dovendo la pubblica amministrazione in ogni caso garantire e coordinare tutti i contrapposti interessi, pubblici e privati, secondo i fondamentali principi di proporzionalità, solidarietà ed equità, macroscopicamente violati dal provvedimento impugnato.

Hanno resistito al gravame la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, l’Azienda per i Servizi Sanitali n. 6 Friuli Occidentale, il Comune di Caneva ed il Comitato di Salvaguardia Dietro Castello, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza e chiedendone il rigetto.

All’udienza in camera di consiglio del 24 settembre 2013, fissata per la delibazione della domanda incidentale di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, su richiesta congiunta delle parti, la causa è stata rinviata per la decisione del merito.

4. Nell’imminenza dell’udienza di trattazione le parti hanno illustrato le proprie tesi difensive, replicando a quelle avversarie.

Alla pubblica udienza del 29 aprile 2014, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

5. I motivi di gravame, che per la loro intima connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

5.1. Come rilevato dai primi giudici, è stato definitivamente accertato dalla sentenza della Corte di Cassazione, sezione III penale, n. 37037 del 29 maggio 2012, che il funzionamento dell’impianto in questione ha provocato immissioni olfattive che non solo hanno superato i limiti di tollerabilità ex art. 844 c.c., dando così luogo a molestie che integrano il reato di cui all’art. 674 C.P., commesso dai soci amministratori della società proprietaria dell’impianto (e che effettivamente lo gestisce), per quanto sono risultate inquinanti e tossiche, essendo irrilevante al riguardo la circostanza del rispetto dei valori limite fissati per le immissioni inquinanti in atmosfera e la presenza dell’autorizzazione disciplinata dal D.P.R. 24 maggio 1998, n. 203.

In particolare, nella sopra citata sentenza, dopo essere stato rilevato che “…se manca la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il giudizio sull’esistenza e sulla tollerabilità delle emissione stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testi, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti”, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Trieste del 7 marzo 2011 (che a sua volta aveva ritenuto corretta la sentenza del 21 dicembre 2009 del Tribunale di Pordenone), la quale ha sottolineato che: “…a) il rispetto dei valori limiti fissati per le emissioni inquinanti in atmosfera e la presenza dell’autorizzazione richiesta dal D.P.R. n. 203 del 1988 (disciplina applicabile ratione temporis) risultano pacifici, ma devono essere ritenuti irrilevanti; b) l’odore di ammoniaca nell’aria dovuto alle deiezioni degli animali è stato riconosciuto distintamente da una pluralità di soggetti; c) l’ammoniaca era, come accertato dall’Agenzia regionale per l’ambiente, presente in più momenti nell’aria in concentrazioni assai rilevanti; d) i rilievi circa la mancanza di significative emissioni di streptococchi non sono dirimenti, perché non escludono le immissioni di odori ampiamente rilevate dalle analisi tecniche espletate e dai testimoni”, aggiungendosi inoltre che “con specifico riferimento alla concentrazione di ammoniaca rilevata…nelle postazioni di rilevamento, per tutti i giorni delle misurazioni, sono state riscontrate concentrazioni medie di ammoniaca che inducono a ritenere che l’attività di allevamento sia fonte delle molestie olfattive lamentate dai residenti; con la conseguenza che, per il 22% del tempo di rilevazione, le immissioni hanno superato i limiti di salubrità dell’aria e hanno travalicato significativamente la soglia di tossicità corrispondente agli standard tecnico–scientifici internazionalmente riconosciuti…”.

Non è idonea a mettere in dubbio tale accertamento, sulla effettività e sulla consistenza delle immissioni olfattive provenienti dall’impianto della società appellante, la circostanza che la ricordata sentenza della Corte di Cassazione abbia annullato in parte senza rinvio la sentenza della Corte di Appello di Trieste per prescrizione del reato ed in parte l’abbia invece annullata con rinvio per la rideterminazione della pena nei confronti di uno degli impugnati, nei cui confronti l’estinzione del reato per prescrizione era solo parziale, trattandosi di questioni che non attengono alla materiale del fatto, ma alla concreta punibilità degli imputati.

Anche pertanto a voler ritenere, come sostenuto dall’appellante, che nel caso di specie non potrebbe trovare applicazione l’art. 654 c.p.p., difettandone i relativi presupposti (a causa della asserita non perfetta coincidenza tra le parti del processo penale e quelle del presente giudizio amministrativo), non può tuttavia negarsi che, ai fini della verifica della legittimità del provvedimento impugnato in primo grado e per la formazione del loro libero convincimento al riguardo, i primi giudici ben potevano utilizzare ogni utile elemento di prova, ritualmente acquisito al giudizio, e quindi non solo le prove raccolte in altri giudizi, ma anche le sentenze di altri giudici da cui risultassero definitivamente accertati, come nel caso di specie, gli stessi fatti oggetto di controversia.

Del resto, diversamente da quanto sostenuto, il giudice penale ha qualificato i fatti, dopo averli accertati nella loro effettiva consistenza materiale, ai soli fini della sussunzione della fattispecie prevista dall’art. 647 c.p.

5.2. Sotto altro concorrente profilo va poi rilevato che la società appellante non ha in realtà contestato che dall’esercizio dell’impianto in questione provengano immissioni maleodoranti, negando piuttosto che le stesse (pacificamente riscontrate da specifici appositi rilievi dall’A.R.P.A.) sarebbero intollerabili (tale valutazione essendo rilevante ai soli fini penalistici e non anche ai fini del sindacato di legittimità sul diniego di rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale) e che soprattutto sarebbero tossiche e nocive, a suo avviso, non essendo invocabili i parametri fissati, in particolare per l’ammoniaca, dall’EPA, Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti d’America, ente che non è stato riconosciuto in Italia ed in Europa.

Sennonché tali argomentazioni sono infondate.

Esse infatti hanno un carattere meramente formale, si pongono in palese ed insanabile contrasto con la ratio cui è ispirata la normativa sul rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale e finiscono altresì col disconoscere inammissibilmente, e senza ragione, gli sviluppi della ricerca, degli studi e dei metodi di indagine di natura tecnico–scientifica in materia di salvaguardia e di tutela della salubrità dell’ambiente e della salute pubblica, ammettendone il loro rilievo solo allorquando essi siano recepite in apposite normative, statali o comunitarie: ciò tanto più se si tiene conto che, nel caso in esame, non risulta neppure messa in dubbio la validità scientifica delle valutazioni dell’EPA sulle soglie di tossicità delle immissioni di ammoniaca.

Quanto poi alla rilevanza della sopra indicata agenzia americana, deve sottolinearsi che i primi giudici, piuttosto che procedere ad un suo (implicito) riconoscimento ufficiale, a livello interno o europeo, hanno ritenuto corretto l’operato dell’amministrazione che, ai fini del diniego del rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, ha tenuto conto di quelle valutazioni scientifiche, specifiche, non irragionevoli, non meramente presuntive, significativamente richiamando sul punto il principio di precauzione, in applicazione del quale, per qualsiasi attività che comporti un pericolo, anche solo potenziale, per la salute umana deve essere previto un alto livello di protezione.

Con riguardo al rilievo, alla natura giuridica ed all’ambito di applicazione possono richiamarsi i principi elaborati dalla giurisprudenza, compendiati nella sentenza di questa Sezione, 17 dicembre 2013, n. 6520, secondo cui “a) il principio di precauzione costituisce uno dei fondamenti della politica dell’Unione Europea e dello Stato Italiano in materia ambientale accanto a quelli della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione in via prioritaria ed alla fonte dei danni causati all’ambiente; l’individuazione dei tratti giuridici del principio viene sviluppata lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi–carattere necessario delle misure adottate; le misure precauzionali infatti presuppongono che la valutazione dei rischi di cui dispongono le autorità rilevi indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente o alla salute; si rifiuta un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente; b) la giuridicizzazione e la conseguente giustiziabilità del principio di precauzione passano così attraverso la necessità di riconoscere canali istituzionali di coinvolgimento dei cittadini, delle loro formazioni sociali e delle loro comunità di riferimento, nell’esercizio della funzione (globalmente rilevante) di amministrazione del rischio, sia a livello comunitario che a livello nazionale; il che contribuisce alla costruzione di un diritto “effettivo”, in linea con il modello della responsable governance; c) il principio presuppone che l’esistenza di un rischio specifico è tale solo quando l’intervento umano su un determinato sito, sulla base di elementi obiettivi, non possa escludersi che pregiudichi il sito interessato in modo significativo; d) sul piano procedurale, l’adozione di misure fondate sul principio di precauzione è condizionata al preventivo svolgimento di una valutazione quanto più possibile completa dei rischi calata nella concretezza del contesto spazio–temporale di riferimento, valutazione che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità; e) il principio in esame non può legittimare una interpretazione delle disposizioni normative, tecniche e amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli per l’area interessata; la situazione di pericolo deve essere potenziale o latente, ma non meramente ipotizzata, e deve incidere significativamente sull’ambiente e sulla salute dell’uomo.

Sotto tale angolazione il principio di precauzione non consente ex se di attribuire ad un organo pubblico un potere di interdizione di un certo progetto o misura; in ogni caso il principio di precauzione affida alle autorità competenti il compito di prevenire il verificarsi o il ripetersi di danni ambientali, ma lascia alle stesse ampi margini di discrezionalità in ordine alla individuazione delle misure ritenute più efficaci, economiche ed efficienti in relazione a tutte le circostanze del caso concreto”.

Anche in riferimento a tale condivisibile indirizzo giurisprudenziale il principio di precauzione risulta correttamente richiamato ed applicato nel caso di specie, il che, sotto altro concorrente profilo, rende infondate le tesi dell’appellante secondo cui l’autorizzazione ambientale integrata non potrebbe mai essere negata, potendo l’amministrazione soltanto imporre misure all’attività da svolgere, ma non vietarla completamente: va osservato che il pur condivisibile principio di proporzionalità e di equo contemperamento dei diritti che vengono in rilievo (libertà di iniziativa economica privata, proprietà privata, diritto alla salubrità dell’ambiente e tutela della salute umana) trova un limite logico–giuridico invalicabile allorché, come nel caso di specie, sia accertato, specificamente ed in modo accurato e non approssimativo, sulla scorta della migliore scienza ed esperienza possibile, l’effettiva esistenza di un rischio, ancorché potenziale, alla salute dei cittadini o alla salubrità dell’ambiente, che costituiscono beni pubblici primari ed irrinunciabili.

5.3. Le osservazioni svolte comportano la reiezione delle considerazioni svolte dall’appellante sulla dedotta mancata valutazione della destinazione urbanistica dell’area e della asserita preesistenza dell’impianto rispetto alle costruzioni realizzate nella zona.

Al riguardo deve rilevarsi che la difesa dell’amministrazione comunale non solo ha negato che gli insediamenti abitativi presenti nella zona sarebbe successivi all’impianto in questione (eccezion fatta per due fabbricati), ma ha altresì evidenziato che la società appellante avrebbe acquistato i capannoni industriali da una azienda, che aveva di fatto dimesso ogni attività, solo nel 2003 (dati di fatto questi che non sono stati posti in contestazione), aggiungendo ancora che, secondo le previsioni dello strumento urbanistico generale, la destinazione dell’area, già a “zona agricola mista E – 7” prevedeva l’installazione a strutture produttive aziendali (stalle, magazzini ed annessi rustici) di carattere non industriale, è stata successivamente variata nel 2001 a “zona E4.1 agricolo paesaggistico di ambito collinare”, con ammissibilità di attività di allevamento non in forma intensiva e non a carattere industriale, escludendosi il subentro di attività non confermi agli usi consentiti.

Pertanto in nessun caso la società appellante poteva dedurre la sussistenza di un eventuale preuso che fondasse un legittimo affidamento all’esercizio dell’attività di allevamento intensivo di pollame, per il quale era stata legittimamente denegata l’autorizzazione integrata ambientale.

6. In conclusione l’appello deve essere respinto, con conferma della sentenza impugnata.

Le spese del secondo grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 5280 del 2013, proposto dalla Società Agricola Castello S.S. di Marco Palù & C. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, sez. I, n. 2 del 2 gennaio 2013, lo respinge.

Condanna la società appellante al pagamento in favore della Regione Friuli Venezia Giulia, dell’Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 Friuli Occidentale del Comune di Caneva e del Comitato Salvaguardia Dietro Castello delle spese del presente grado di giudizio, che liquida complessivamente in €. 12.000,00 (dodicimila), €. 3.000,00 (tremila) ciascuno, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere, Estensore

Antonio Amicuzzi, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 10/09/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)