Cass. Sez. III n.29222 del 7 agosto 2025 (UP 2 lug 2025)
Pres. Ramacci Est. Galanti Ric. Di Stasi
Rifiuti.Combustione di rifiuti pericolosi ipotesi autonoma di reato e non circostanza aggravante.

Ove l'ipotesi delittuosa di cui all'articolo 256-bis d.lgs. 152/2006 abbia ad oggetto rifiuti pericolosi, essa costituisce figura autonoma di reato e non circostanza aggravante, in ragione della differenza «originaria» tra rifiuti pericolosi e non pericolosi in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi), con conseguente esclusione della fattispecie di combustione illecita di rifiuti pericolosi dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.

RITENUTO IN FATTO 

1. Con sentenza in data 09/04/2024, la Corte d'appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale di Termini Imerese del 25/10/2022, che aveva condannato Di Stasi Francesco, in relazione al delitto di cui all'art. 256-bis d. Igs. 152/2006, aggravato ex art. 99 cod. pen., alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione.
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione.
2.1. Con un primo motivo, lamenta travisamento della prova principale, ossia l'accendino rinvenuto indosso all'imputato, definito «a fiamma ossidrica» (invece che una normale fiamma «antivento»), nonché degli ulteriori dati istruttori, dei quali fornisce una più logica ipotesi controfattuale.
2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione dell'articolo 256-bis d. Igs. 152/2006.
La difesa, nell'atto di appello, aveva sollecitato l'applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ad effetto speciale.
Erroneamente, la Corte territoriale ha invece ritenuto che la combustione di rifiuti pericolosi, prevista dall'ultima parte del comma 1 della disposizione de quo, costituisca ipotesi autonoma di reato.
3. In data- 26 marzo 2025, l'Avv. Raffele Delisi depositava, per l'imputato, memoria in cui, nel ribadire la fondatezza del ricorso (insistendo in particolare sul secondo motivo), chiedeva che il fascicolo venisse rimesso alla Terza Sezione.
4. Il ricorso, inizialmente assegnato alla Settima Sezione, veniva quindi ritrasmesso per la trattazione in Terza Sezione, in ragione della non manifesta infondatezza del secondo motivo.

RITENUTO IN DIRITTO 

1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. il primo motivo è inammissibile.
Il Collegio rammenta come questa Corte abbia chiarito che, in caso di «doppia conforme» il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite (Sez. 2, n. 32113 del 02/07/2021, Dhayba, n.m.).
Analogamente, si è ritenuto che il ricorso per cassazione è ammissibile laddove il dato probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, Mietti, Rv. 283777 - 01).
2 Detto travisamento deve tuttavia avvenire in forma di tale «macroscopica o manifesta evidenza» da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (cfr., Sez. 4, n. 35963 del 3/12/2020, Tassoni, Rv. 280155 - 01; Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018, Loculli, n.m.).
E' necessario, quindi, che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, di guisa che il travisamento sia tale da «disarticolare» l'intero ragionamento probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 2/7/2019, S., Rv. 27758- 01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774 - 01).
Ne consegue l'irrilevanza di eventuali errori commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima che tali caratteristiche non abbiano (Sez. 5, n. 8188 del 4/12/2017, Grancini; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, Borriello, Rv. 276567 - 01), come nel caso in esame, in cui sostanzialmente si censura il giudizio di congruità degli elementi indizianti in una valutazione unitaria al fine di fornire la prova logica del fatto (svolto alle pagine 3-7 della sentenza impugnata), sollecitando una rivalutazione del compendio istruttorio, chiaramente preclusa in sede di legittimità.
4. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente attribuito alla ipotesi di reato contestata natura di titolo autonomo di reato.
4.1. Il Collegio evidenzia sul punto che, nella giurisprudenza della Corte, il tema è stato affrontato solo obiter in Sez. 3, n. 16346 del 11/01/2021, Baldi, n.m., e Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Sancilles, Rv. 271359 - 01, le quali depongono per la natura circostanziata della ipotesi di cui oggi si verte (si afferma infatti che - il corsivo è del Collegio - «il "nuovo" art. 256- bis, introdotto dall'art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma»).
Non può, al contrario, trarsi conferma della natura autonoma di reato dal contenuto di altra pronuncia, che si è espressa (v. Sez. 3, n. 42394 del 28/09/2011, Rossetti, Rv. 251425 - 01) in relazione alla contravvenzione di cui a comma 4 rispetto al comma 1 dell'articolo 256 del d.lgs.152/2006, trattandosi di condotte completamente differenti.
In un caso simile al presente, tuttavia, questa Sezione ha ritenuto (Sez. 3, n. 26479 del 14/03/2007, Magni, Rv. 237133 - 01) che configura un reato autonomo - e non una circostanza aggravante del reato base - l'aver cagionato l'inquinamento o il pericolo concreto di inquinamento da rifiuti pericolosi in caso di omessa bonifica del sito inquinato (art. 51-bis d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, abrogato dal d. Igs. 152/2006 e sostituito dall'articolo 257 del medesimo decreto, che prevedeva la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da lire cinque 3 milioni a lire cinquanta milioni in caso di inquinamento provocato da rifiuti non pericolosi, mentre invece dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell'ammenda da lire 10 milioni a lire 100 milioni se l'inquinamento era provocato da rifiuti pericolosi).
In tale occasione la Corte, pur evidenziando l'assenza di unanimità di vedute sul punto, ha sottolineato che la soluzione prescelta è preferibile, anzitutto perché sarebbe difficilmente giustificabile una configurazione diversa da quella relativa al reato di gestione non autorizzata di rifiuti, che il cit. d.lgs. n. 22 del 1997, art. 51, differenzia quoad poenam con riferimento ai rifiuti pericolosi e ai rifiuti non pericolosi e che la giurisprudenza unanime di questa Corte interpreta come ipotesi autonoma di reato e non come ipotesi aggravata di un reato semplice.
In secondo luogo, la citata sentenza evidenzia come sia legittimo supporre che, proprio per una condotta penale di forte allarme sociale come quella di inquinamento da rifiuti pericolosi, il legislatore abbia voluto sottrarre al bilanciamento discrezionale tra le circostanze, affidato al giudice ex art. 69 c.p., la commisurazione concreta della pena, mettendo così a repentaglio la congruità del trattamento sanzionatorio e l'efficacia generai-preventiva della pena edittale.
4.2. La relazione dell'Ufficio del massimario e del ruolo, di commento alla I. 6 febbraio 2014, n. 6, «Conversione in legge del d.l. 10 dicembre 2013, n. 136, recanti disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate» (Rel. n. 111/02/2014 Roma, 17.02.2014), a sua volta, dopo avere evidenziato che, mentre «il decreto legge poteva indurre a ritenere la sussistenza di un'autonoma fattispecie incriminatrice e non una circostanza aggravante sia perché per la stessa erano - e sono - previste pene autonomamente determinate rispetto a quelle della fattispecie base, sia, soprattutto, perché il legislatore, ai commi 3, 4 e 5 del medesimo art. 256--bis, laddove si riferisce alle circostanze aggravanti ed alle cose confiscabili, adoperava l'espressione "delitti di cúi al comma 1", impiegando espressamente il plurale. Già sotto la vigenza di quel testo, tuttavia, si era segnalato come non potesse ritenersi del tutto implausibile un inquadramento dell'ipotesi in termini di circostanza aggravante perché l'elemento differenziale rispetto alla fattispecie prevista dal primo periodo del medesimo comma era - ed è - costituito esclusivamente dall'oggetto materiale, i "rifiuti pericolosi", la cui nozione è desumibile alla luce di quanto dispone l'art. 184, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006, che fa riferimento, a tal fine, alle cose dotate delle "caratteristiche di cui all'allegato I della parte quarta del presente decreto"», sottolineava che con le modifiche apportate in sede di conversione, «il legislatore sembra aver scelto con decisione la formula della circostanza aggravante: invero, va sottolineata la cura con cui l'espressione "delitti di cui al comma 1", precedentemente impiegata dal d.l. n. 136 del 2013 nei commi 3, 4 e 5 della medesima disposizione, è stata modificata dalla legge di conversione in quella di "delitto di cui al comma 1" (comma 3), "fatto di cui al comma 1" (comma 4), "reato di cui al comma 1" (comma 5)».
4.3. In dottrina, d'altro canto, se alcuni commentatori ritengono decisivo il dato testuale costituito dalle modifiche apportate in sede di conversione del decreto-legge, altri propendono 4 per la natura autonoma della fattispecie, evidenziando che il comma 1 dell'articolo 256-bis d.lgs. 152/2006 si atteggia come norma «a fattispecie alternative», che vengono unificate in ragione della similitudine tra le condotte, ma che si distinguono sulla base di elementi bilateralmente specializzanti.
Infatti, se da un lato la natura pericolosa dei rifiuti è specializzante rispetto alla natura non pericolosa degli stessi, d'altro canto la norma non ripete tutte le caratteristiche della fattispecie già esaminata, mancando qualsiasi riferimento alla «collocazione» del rifiuto: il legislatore, in altre parole non attuerebbe un mero rinvio alla ipotesi «base» di combustione illecita, ma, riformulando la fattispecie, ometterebbe di valorizzare il riferimento al deposito illegittimo del rifiuto.
Si evidenzia poi che, sistematicamente, il legislatore ha disciplinato riservato le ipotesi certamente circostanziali ai commi 3 e 4, e che, al comma 2, ha operato un rinvio sanzionatorio alle «stesse pene» previste dal comma 1: la declinazione al plurale apparirebbe quindi sintomatica della volontà di distinguere le due ipotesi criminose descritte nell'alveo del medesimo comma 1.
Da ultimo, si sottolinea che in riferimento ad analoghe previsioni ricorrenti nel d.lgs.
152/2006 (artt. 256 e 257), sono sempre state considerate dalla giurisprudenza come fattispecie autonome quelle che distinguono la pena quando il fatto ha ad oggetto rifiuti pericolosi (quanto all'art. 256, si cita Sez. 3, n. 42394 del 28/09/2011, Rv. 251425; quanto all'art. 257, Sez. 3, n.26479 del 14/03/2007, Rv. 237133, entrambe citate dianzi).
5. Il Collegio, nel premettere che non esiste alcuna differenza ontologica tra circostanze ed elementi costitutivi del reato, posto che il medesimo elemento può indifferentemente essere assunto dal legislatore quale elemento essenziale o accidentale del reato, come emerge dallo stesso disposto letterale degli artt. 61 («aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali»), 62 («attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali»), e 84 («la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti»), evidenzia che le Sezioni Unite della Corte sono reiteratamente intervenute al fine di stabilirne i relativi confini, individuando una serie di elementi, che la dottrina ha successivamente qualificato in termini di criteri di distinzione «forti» e «deboli».
5.1. La Corte nella sua massima composizione (Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv.221663 - 01, con principio ribadito da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251270 - 01), ha in primis evidenziato la insufficienza di criteri «formali», quali il nomen iuris adottato dal legislatore, sottolineando come la rubrica non è mai stata ritenuta indizio únivoco e assoluto della voluntas legis.
Analogamente, si è ritenuto irrilevante il criterio «topografico», il quale valorizza la collocazione della norma; i sostenitori della decisività di tale criterio sostengono che se la norma fosse formulata in un articolo separato costituirebbe una fattispecie autonoma di reato, mentre se fosse formulata nello stesso articolo che prevede il reato semplice, denoterebbe una fattispecie circostanziale. Ma tale indizio non è stato ritenuto dirimente dalle Sezioni Unite, in quanto vi sono fattispecie formulate in articoli separati che tuttavia sono da classificarsi come circostanze aggravanti.
La Corte, nella sentenza Fedi, ha poi analizzato i criteri che si possono chiamare «strutturali», perché attengono - per l'appunto - alla struttura del precetto o della sanzione, che sono invece di maggior peso, quali il modo in cui il legislatore descrive gli elementi costitutivi della fattispecie: si potrebbe a tal proposito sostenere che, quando la fattispecie è descritta attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione di legge, ci si trova spesso in presenza di una circostanza aggravante.
Altro criterio strutturale è dato dal modo di determinazione della pena: in certi casi il legislatore determina la pena richiamando quella prevista in altra norma, applicando sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o in diminuzione. Nonostante la determinazione per relationem possa far pensare alla configurazione di una circostanza, tuttavia, sono però frequenti i casi in cui è indubbia la previsione di un autonomo reato: così per la corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 c.p.); per la subornazione (art. 377), la cui pena è stabilita in relazione a quelle previste per la falsa testimonianza e la falsa perizia o interpretazione; per i già citati delitti colposi contro la salute pubblica di cui al secondo comma dell'art. 452.
In altri casi, invece, il legislatore determina la pena modificandone la specie o mutando la cornice edittale rispetto alla pena di riferimento. Anche in questi casi in genere l'indizio non è univoco, perché, con siffatte variazioni del trattamento sanzionatorio, talvolta il legislatore ha inteso configurare una figura nuova di reato e talaltra ha semplicemente previsto una circostanza c.d. «autonoma» o «indipendente».
La Corte ha poi analizzato il criterio di tipo «teleologico», che è in genere quello più seguito dalla giurisprudenza di legittimità: secondo questo criterio, quando la fattispecie penale tutela un bene giuridico diverso rispetto a quello tutelato dalla fattispecie penale di riferimento, siamo di fronte a un'autonoma figura di reato e non a una circostanza aggravante.
La sentenza Fedi ha invece escluso che possa trovare applicazione il principio del favor rei, secondo cui dovrebbe applicarsi in concreto la disciplina più favorevole all'incolpato, aderendo alla autorevole dottrina secondo cui il principio del favor rei è un principio che può avere ingresso solo nel campo del diritto processuale, e precisamente del diritto probatorio, in relazione alla sussistenza di un dubbio sulla responsabilità.
5.2. La successiva sentenza Mills (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246581 - 01) ha, invece, ritenuto che il metodo per la corretta interpretazione di una disposizione legislativa deve essere condotto mediante un'indagine che abbia ad oggetto, in via primaria, il significato lessicale della stessa, che, se chiaro ed univoco, non consente l'utilizzazione di altre vie di ricerca, 6 mentre il criterio strutturale della descrizione del precetto penale dovrebbe avere, al pari degli altri criteri, un rilievo meramente indiziario.
5.3. La tematica è stata ripresa dalla sentenza Casani (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251270 - 01), evidenziandosi che «circostanze del reato» sono quegli elementi che, non richiesti per l'esistenza del reato stesso, laddove sussistono incidono sulla sua maggiore o minore gravità, così comportando modifiche quantitative o qualitative all'entità della pena: trattasi di elementi che si pongono in rapporto di species a genus (e non come fatti giuridici modificativi) con i corrispondenti elementi della fattispecie semplice in modo da costituirne, come evidenziato da autorevole dottrina, «una specificazione, un particolare modo d'essere, una variante di intensità di corrispondenti elementi generali», così sancendo di fatto un ritorno al principio di specialità.
5.4. La successiva giurisprudenza delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 40982 del 21/06/2018, Mizanur, Rv. 273937 - 01) ha ritenuto che elemento utile può essere costituito dal rapporto di «specialità» tra le fattispecie, precisando tuttavia che esso vale solo «in negativo»: in tanto può parlarsi di circostanza in quanto tra le due fattispecie sussista un rapporto di specialità, per aggiunta o specificazione; tuttavia, tale condizione è necessaria ma non sufficiente affinché possa trattarsi di elemento circostanziale.
5.5. In dottrina, d'altra parte, si ritiene in modo quasi univoco che costituiscano criteri «forti» di distinzione il principio di specialità, la presenza espressa di clausole tipo «la pena è aumentata» o similari, e il rinvio esplicito, da parte della norma, alla disciplina del giudizio di bilanciamento tra circostanze, mentre costituiscano elementi «deboli» quelli che afferiscono alla «tecnica normativa», per cui si ritiene che costituiscano indici non decisivi della natura circostanziale il fatto che la fattispecie sia descritta per relationem rispetto al reato-base, ovvero nella sua rubrica compaia la dizione «circostanza», ovvero che la fattispecie sia collocata nello stesso articolo che prevede il reato-base, ovvero ancora che la pena sia determinata in termini proporzionali rispetto a quella del reato-base; mentre costituisce indice debole della natura autonoma il fatto che la fattispecie dubbia sia integralmente ridescritta, ovvero sia fornita di un autonomo nomen iuris, ovvero ancora sia collocata in un diverso articolo.
6. Nel caso oggetto dell'odierno scrutinio, sotto il profilo della tecnica normativa, vi sono elementi (tutti deboli) che inducono a propendere per la natura autonoma della fattispecie (il fatto che le circostanze siano disciplinate al comma 3 e che il comma 2 faccia riferimento alle «pene» di cui al comma 1) e altri che sembrerebbero far pendere l'ago della bilancia verso la natura circostanziale (le modifiche apportate ai commi 4 e 5 in sede di conversione del decreto legge).
Non sono invece presenti dati letterali espliciti che consentano di risolvere il problema (come, ad esempio, l'esclusione espressa dal bilanciamento delle circostanze o, al contrario, Jj l'espressa qualifica in termini di circostanza), mentre il fatto che la pena sia determinata in modo autonomo costituisce elemento strutturale a favore dell'autonomia della fattispecie.
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, la questione vada affrontata facendo applicazione di un criterio sistematico riferito alla intera disciplina della Parte IV del decreto legislativo n. 152 del 2006.
Va in proposito evidenziato che, ai sensi dell'articolo 183 lett. a) d. Igs. n. 152/2006, costituisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto (...) di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi», mentre per il successivo articolo 184, comma 1, i rifiuti sono classificati, secondo l'origine, in rifiuti «urbani» e rifiuti «speciali» e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti «pericolosi» e rifiuti «non pericolosi».
Essi, pertanto, non sono distinti in base alla «specialità» del rifiuto pericoloso rispetto a quello non pericoloso, ma sono stati considerati dal legislatore come «originariamente» differenti, in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi).
La distinzione proietta i suoi effetti sia sul contenuto delle autorizzazioni (art. 208) che delle prescrizioni imposte con l'autorizzazione.
La parte sanzionatoria, a sua volta, distingue in modo netto il caso in cui l'attività illecita abbia ad oggetto rifiuti non pericolosi o pericolosi: così l'art. 255, comma 1, in tema di abbandono o deposito incontrollato; l'art. 256, comma 1, in relazione alla gestione illecita di rifiuti, nonché art. 257, in tema di omessa bonifica (ove, peraltro, si fa riferimento a «sostanze pericolose» e non a «rifiuti»).
La differenza «originaria» tra rifiuti pericolosi e non pericolosi, a giudizio del Collegio, impedendo l'applicazione del principio di specialità, depone in modo conclusivo, unitamente agli altri elementi considerati, per la natura autonoma della fattispecie incriminatrice.
Si deve quindi concludere nel senso che ove l'ipotesi delittuosa di cui all'articolo 256-bis d.lgs. 152/2006 abbia ad oggetto rifiuti pericolosi, essa costituisce figura autonoma di reato e non circostanza aggravante, in ragione della differenza «originaria» tra rifiuti pericolosi e non pericolosi in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi), con conseguente esclusione della fattispecie di combustione illecita di rifiuti pericolosi dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen..
Il motivo di ricorso è pertanto infondato.
4. Il ricorso deve quindi essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 2 luglio 2025.