Sanzioni amministrative in edilizia.Clamorosa topica del Consiglio di Stato.
(Commento a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 5158 del 25/6/2013, depositata il 24/10/2013 – riportata in appendice)

di Massimo GRISANTI

Di questi tempi (…) quando si verte in tema di sanzioni amministrative è sempre bene iniziare a precisare.

 

Il caso portato all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada era bene che non fosse nemmeno sorto, tanto che è finito peggio!

 

La vicenda riguarda l’elevazione di una sanzione pecuniaria amministrativa di £ 426.762.000 relativa ad opere realizzate (udite udite!) in “parziale difformità” dalla licenza comunale n. 4 rilasciata dal Sindaco di Napoli nell’anno 1949 che autorizzava la costruzione di un edificio residenziale condominiale.

 

La mia meraviglia non sta nel fatto che il provvedimento comunale riguarda una licenza del 1949, ma che il Comune abbia proceduto a comminare una sanzione amministrativa per una fattispecie di illecito – la parziale difformità – che è stata introdotta dal legislatore statale soltanto nel 1977 con la c.d. Legge Bucalossi.

 

Ma quando le cose nascono male, non possono che finire peggio!

 

I Giudici d’appello scrivono in sentenza:

“[…] Premette il Collegio che, se è vero che il divieto di norme sanzionatorie retroattive è costituzionalmente previsto per le sole norme penali, ciò non toglie che per le sanzioni amministrative debba pur sempre valere il generale canone di irretroattività posto dall’art. 11 disp. prel. cod.

civ.

La giurisprudenza di questa Sezione ha invero già da tempo puntualizzato che le sanzioni amministrative comminate dalla l. n. 47/1985 non sono generalmente applicabili con effetto retroattivo e non possono essere perciò irrogate per costruzioni portate a compimento prima dell'entrata in vigore della fonte stessa (Consiglio di Stato, Sezione V, 8 aprile 1991, n. 470).

Pertanto, le sanzioni amministrative previste da detta legge n. 47/1985 non sono irrogabili per le costruzioni completate prima dell'entrata in vigore della legge, dovendosi applicare quelle prescritte dalla normativa vigente all'epoca dell'abuso. E questo vale, in particolare, per la sanzione pecuniaria da infliggere a norma di tale fonte, sanzione applicabile soltanto alle violazioni commesse successivamente all’entrata in vigore di questa, dal momento la relativa disposizione normativa non ha valore retroattivo (Consiglio di Stato, Sezione V, 12 marzo 1992, n. 214).

Tanto, appunto, in virtù del principio generale dell'art. 11 disp. prel. Cod.

civ., e stante la mancanza di un’espressa previsione che ne ammetta l'irrogazione anche retroattiva (Consiglio di Stato, Sezione V, 27 settembre 1990, n. 695). […]”.

 

Evidentemente ai componenti il Collegio sfugge che:

  1. La stessa V^ Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 693 del 12/6/1993, aveva stabilito: “Le sanzioni introdotte dalla L. 28 febbraio 1985 n. 47 sono applicabili retroattivamente solo agli abusi edilizi anteriori al 1° ottobre 1983 e non anche a quelli compiuti tra il 1° ottobre 1983 ed il 16 marzo 1985.”. Ne deriva che non risponde al vero quanto affermato oggi dai Giudici di Palazzo Spada in ordine alla posizione costante della V^ Sezione sulla retroattività delle sanzioni amministrative della Legge n. 47/1985.

 

  1. Non risponde al vero che non esiste una norma espressa che prescriva l’applicazione delle sanzioni amministrative del Capo I della Legge n. 47/1985 agli abusi edilizi perpetrati prima della sua entrata in vigore. Infatti, le disposizioni dell’art. 40 parlano chiaro, se si vogliono leggere ed intendere, ovverosia si applicano alle costruzioni realizzate in assenza o in totale difformità dal titolo. Ne consegue che non potevano essere invocate a sostegno di una presunta “parziale difformità” (“Se nel termine prescritto non viene presentata la domanda di cui all'art. 31 per opere abusive realizzate in totale difformità o in assenza della licenza o concessione, ovvero se la domanda presentata, per la rilevanza delle omissioni o delle inesattezze riscontrate, deve ritenersi dolosamente infedele, si applicano le sanzioni di cui al capo I.”).

 

Ma principalmente, i Giudici di Palazzo Spada si dimenticano (?) quanto statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 823 del 4-14 luglio 1988, chiamata ad esprimersi proprio sulle sanzioni amministrative dell’art. 40 della legge n. 47/1985 (che qui vengo a riportare integralmente, visto che ce ne è di bisogno):

“1. – La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è stata proposta, dall’ordinanza di rimessione, sotto tre distinti profili: a) contrasto della disposizione impugnata con l’art. 25, secondo comma, Cost. in quanto irroga sanzioni penali (arresto fino a due anni ed ammenda da dieci a cento milioni) non previste all’epoca del commesso reato; b) contrasto della stessa impugnata disposizione con l’art. 3 Cost., in quanto prevede sanzioni penali più gravi per i fatti di abusi edilizi commessi anteriormente al 1° ottobre 1983 rispetto alle sanzioni, di gran lunga meno gravi, comminate per analoghi fatti, più recenti, commessi, appunto, dopo il 1° ottobre 1983 ma prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985; c) contrasto della comminatoria penale disposta dall’art. 40 della legge da ultimo citata con l’art. 3 Cost., in quanto tale comminatoria illegittimamente parifica l’ipotesi di mancata presentazione della domanda di sanatoria a quella, meno grave, di non effettuata oblazione dopo la presentazione della domanda di sanatoria.

2. – Nell’esame del profilo sub a) va anzitutto osservato che nell’ordinanza di rimessione si parte dal presupposto secondo il quale l’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 disporrebbe l’applicabilità, in relazione al fatto contestato all’imputato, (anche) di sanzioni penali.

Poiché il fatto contestato nel procedimento a quo rientra in una delle ipotesi previste dall’articolo censurato (opera abusiva realizzata in assenza di concessione edilizia) e poiché la violazione attribuita all’imputato è stata commessa, secondo l’assunto del giudice remittente, entro il 1° ottobre 1983, ed è, pertanto, oblabile, ai sensi dell’art. 31, primo comma, lettera a), della ricordata legge n. 47 del 1985, il non essere stata presentata la domanda di cui allo stesso articolo 31 espone l’imputato alle sanzioni previste dal citato art. 40 della legge da ultimo ricordata. Ma, quali sono le sanzioni effettivamente comminate dallo stesso art. 40?

3. – Or se esattamente il giudice a quo, dall’esame della lettera e dei lavori preparatori dell’articolo impugnato, desume che con lo stesso articolo non si è inteso sanzionare penalmente, per sé, il fatto della mancata presentazione della richiesta di cui all’art. 31 della legge in discussione, non altrettanto condividibile appare la conclusione interpretativa dello stesso giudice secondo la quale al fatto addebitato all’imputato (realizzazione, entro il 1° ottobre 1983, di opera edilizia in carenza di licenza o concessione) debbano seguire (anche) sanzioni penali: appunto in base ai lavori preparatori del più volte citato art. 40 ed al confronto tra lo stesso articolo e l’art. 25, secondo comma, Cost., è da ritenersi che il rinvio alle sanzioni di cui al capo I, contenuto nell’art. 40, non sia da interpretarsi come applicabilità, al caso di specie, (anche) di sanzioni penali.

È ben vero, infatti, che nel testo dell’art. 20, incluso nel capo I della legge in esame, sono previste le sanzioni penali (la rubrica dell’art. 20 reca, appunto, la dizione “sanzioni penali”) da applicarsi al caso di specie (lettera b) ed è ben vero che, nell’ultimo comma del citato articolo si legge: “Le disposizioni di cui al comma precedente sostituiscono quelle di cui all’art. 17 della legge 28 gennaio 1977, n. 10” ma è altresì vero che già nella relazione Piermarini, predisposta ai fini dell’esame della normativa, che costituirà il contenuto della legge n. 47 del 1985, presso la IX commissione permanente della Camera dei deputati (come risulta dagli atti della Camera, IX legislatura n. 833-548-685 A) espressamente si dichiara che “la mancata presentazione della domanda di sanatoria viene sanzionata, quando si tratta di opere realizzate in totale difformità od in assenza di titolo, con l’applicazione delle sanzioni amministrative previste nel capo I del disegno di legge: tali sanzioni trovano applicazione anche nel caso di presentazione di domanda dolosamente infedele. La disposizione non può prestare il fianco a critiche poiché, per gli abusi sopradetti, è stata sempre prevista la demolizione: cosicché il riferimento alle nuove sanzioni del capo I – a prescindere dal fatto che si tratta di sanzioni amministrative e non penali – comporta soltanto una diversa disciplina procedimentale per l’applicazione di una sanzione consistente sempre nella sottrazione, attraverso la demolizione o l’acquisizione al patrimonio comunale, dell’opera abusiva, al responsabile dell’abuso”.

La volontà del legislatore d’applicare, alle ipotesi di opere realizzate in totale difformità od in assenza di titolo, soltanto sanzioni amministrative, rimase ferma durante l’intero svolgimento dei lavori parlamentari. Ed infatti tutte le volte (tranne le tre ultime votazioni sulla proposta di legge, in generale, in assemblea del Senato, nella commissione Lavori pubblici ed in assemblea a Montecitorio) in cui si sottopose, specificamente, ad esame ed a votazione la norma che costituirà l’impugnato art. 40 (nel quale si rinvia alle sanzioni, peraltro non specificate, di cui al capo I) le sanzioni penali non erano incluse in quest’ultimo bensì nel capo III e precisamente nell’art. 30 del disegno di legge che si andava discutendo ed approvando.

Nel testo votato dalla Camera dei deputati (e che passò, così approvato, al Senato) la disposizione di cui all’attuale art. 20 della legge in esame (relativa alle sanzioni penali) era, infatti, inserita, come art. 30, nel capo III ed intitolata “Recupero urbanistico di insediamenti abusivi. Sanzioni penali”. L’art. 40 della stessa legge, disponendo il rinvio alle sanzioni di cui al capo I, non poteva, dunque, riferirsi, almeno nel testo inizialmente discusso e votato dalla Camera dei deputati, alle sanzioni penali, contenute nel capo III e non nel capo I.

Il Senato della Repubblica, nella seduta del 28 settembre 1984, approvò l’art. 30, che conteneva la previsione delle sanzioni penali per le ivi previste ipotesi di opere abusive e, successivamente, nella seduta del 2 ottobre, l’art. 40. Sia la Camera dei deputati sia il Senato, nel momento in cui discussero ed approvarono, specificamente, il più volte citato art.40, che conteneva il rinvio alle sanzioni di cui al capo I, giammai (almeno fino a questo momento dell’iter parlamentare) “pensarono” e giammai “potevano”, dunque, “pensare”, di rendere applicabili, ai casi previsti dallo stesso art. 40, le sanzioni penali che erano previste nel già votato art. 30, incluso nel capo III.

Fu soltanto dopo l’approvazione, specifica, di tutti gli articoli della proposta di legge e prima della votazione finale, che il relatore Bastianini, nella stessa seduta del Senato del 2 ottobre 1984, propose, fra l’altro: a) di modificare l’ordine di successione di alcuni articoli e, in particolare, d’inserire l’art. 30 subito dopo l’art. 20; b) di sopprimere nella rubrica del capo III le parole “Sanzioni penali”, appunto a seguito dello spostamento del disposto di cui all’art. 30, contenente la previsione di tali sanzioni, nel capo I. Approvata la proposta del relatore, l’originario art. 30 divenne art. 20, in quanto l’originario art. 20 era divenuto art. 19 per effetto della soppressione d’un articolo precedente.

Successivamente, la IX commissione (Lavori pubblici) della Camera, nell’esaminare, fra l’altro, in due sedute diverse, in quella del 6 dicembre 1984 l’art. 20 e nella seduta del 13 dicembre 1984 l’art.40, non tenne conto delle perplessità che potevano derivare (dato il letterale richiamo alle “sanzioni di cui al capo I”, contenuto nell’art. 40) dallo spostamento delle disposizioni che prevedevano le sanzioni penali dal capo III al capo I. E di tali perplessità neppure s’avvide l’assemblea di Montecitorio, che approvò gli artt. 20 e 40 nella seduta del 21 febbraio 1985.

Si è, dunque, trattato, durante i lavori preparatori della legge qui in esame, d’un difetto di “coordinamento”: quest’ultimo doveva intervenire subito dopo l’accoglimento della proposta del relatore Bastianini, al Senato, relativa allo spostamento delle disposizioni che prevedevano le comminatorie penali dal capo III al capo I. Attraverso una modifica letterale dell’art. 40, doveva appunto rendersi palese l’effettiva volontà, già manifestata da entrambe le Camere, d’applicare alle ipotesi previste dallo stesso articolo soltanto sanzioni amministrative, come peraltro esplicitamente dichiarato dalla già citata prima relazione Piermarini.

L’effettiva volontà del legislatore di comminare, cioè, per le predette ipotesi, soltanto sanzioni amministrative è, malgrado l’ora ricordato difetto di coordinamento, dunque, facilmente ed incontrovertibilmente ricostruibile. Ed è, fra l’altro, davvero improbabile che il legislatore intendesse consapevolmente, violando fondamentali principi costituzionalmente sanciti, rendere, cioè, retroattive sanzioni penali di gran lunga più gravi di quelle vigenti al momento della commissione del sanzionato fatto illecito. E tutto ciò, iniquamente, solo per la mancata presentazione dell’istanza di sanatoria o per il mancato pagamento dell’oblazione.

4. – Il giudice a quo esattamente rileva la contrarietà all’art. 25, secondo comma, Cost. del disposto di cui all’art. 40 della legge qui in esame, ove lo stesso articolo venga interpretato come irrogatorio, alle ipotesi ivi previste, delle sanzioni penali di cui all’art. 20 della stessa legge. Ciò, tuttavia, prima ancora d’indurre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’impugnata disposizione, non può non condurre questa Corte a dubitare dell’interpretazione che della stessa disposizione il giudice remittente offre. E ciò, non soltanto a seguito delle osservazioni precedentemente sottolineate, attinenti alla volontà (effettiva) del legislatore ma anche, e soprattutto, per l’oggettiva volontà della norma, che non può esser ricostruita tenendo conto (anche a prescindere dall’esame dei lavori preparatori) della sola lettera della particolare disposizione di legge che s’interpreta.

Si tenga conto, anzitutto, che il secondo comma dell’art. 25 Cost. eleva a livello costituzionale non soltanto il principio secondo il quale la legge penale non può sanzionare retroattivamente fattispecie in precedenza non costituenti reato ma anche quello per il quale il legislatore ordinario non può legittimamente irrogare, per fattispecie già sanzionate, pene più gravi di quelle previgenti.

Si tenga altresì presente che l’interpretazione secondo Costituzione (c.d. interpretazione adeguatrice) è momento costitutivo normale di ogni interpretazione: conseguentemente, come più volte ribadito da questa Corte, tra due interpretazioni, l’una conforme e l’altra contrastante con la Costituzione, va certamente preferita la prima. Deve, dunque, concludersi che l’interpretazione da dare all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è, contrariamente a quanto assume il giudice a quo, quella secondo la quale lo stesso articolo esclude l’applicazione alle ipotesi ivi previste di sanzioni penali.

Questa Corte non può esimersi dal rilevare da un canto che la dottrina è 9ressoché unanime nell’orientamento esegetico qui accolto e, d’altro canto, che non risulta che nell’applicazione giurisprudenziale si sia mai dubitato che alle ipotesi previste dal più volte citato art. 40 debbano continuare ad applicarsi (ove non sia, ovviamente, estinto il reato) le sanzioni penali di cui all’art. 17 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, della sola legge, peraltro, richiamata nella contestazione all’imputato nel procedimento a quo.”.

 

Si ricorda, infine, che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 68/1984, stabilì che “La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato (sentenze n. 29 del 1961; 46 del 1964 e, da ultimo, 194 del 1976 e 13 del 1977) che il principio della irretroattività delle leggi è stato costituzionalizzato soltanto con riguardo alla materia penale, mentre per le restanti materie la osservanza del principio stesso è rimessa alla prudente valutazione del legislatore.”.

 

In definitiva, con la sentenza in commento il Consiglio di Stato finisce per orientare i Comuni a non applicare anche la sanzione amministrativa dell’acquisizione gratuita de iure al patrimonio dell’Ente in caso di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione. Si rammenta che solo con la legge n. 47/1985 la già prevista acquisizione al patrimonio pubblico diventa automatica, di diritto, senza necessità di atti mediati posti in essere da organi della pubblica amministrazione (la novella della sanzione amministrativa si pone l’obiettivo di evitare collusioni tra reo ed organi della p.a. che, sino ad allora, dovevano, all’evidenza, manifestarsi in molteplici casi, atteso che solo in sporadici casi si arrivava all’acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale).

Se non fosse una palese topica, si potrebbe arrivare a pensare che il Consiglio di Stato abbia voluto premiare l’abusivismo edilizio permettendo il mantenimento in essere – e in disponibilità del reo – dell’opera abusiva.

 

Non si trascuri, inoltre, il fatto che lo Stato, con il nuovo articolo 26 della legge n. 1150/1942 sostituito dalla legge n. 765/1967, tollerò ex lege gli abusi edilizi per i quali i Sindaci avevano rilasciato la licenza di agibilità. Ciò non significa che su tali beni sia possibile intervenire, anche con opere di manutenzione ordinaria, atteso che il presupposto della legittimità della res è conditio sine qua non per effettuare ogni tipo di intervento edilizio (cfr. Corte Costituzionale, n. 529/1995).

 

Che dire di fronte a questa sentenza … disgrazia a chi ci capita …

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Scritto il 30/10/2013

 

P.S. – Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato non esiste, a mio avviso, alcun abuso edilizio (in base alla normativa vigente al momento dei fatti), in quanto non avendo, il Comune, ravvisato il contrasto (e non già la mera parziale difformità) tra l’opera eseguita e l’opera autorizzata, significa che le modifiche apportate in corso d’opera costituivano un adattamento del progetto.

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Appendice

 

N. 05158/2013REG.PROV.COLL.

N. 09936/2001 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9936 del 2001, proposto da:
Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avv. Bruno Ricci, Edoardo Barone, Giuseppe Tarallo, Anna Pulcini e Fabio Maria Ferrari, con domicilio eletto presso o studio dell’avv. Gian Marco Grez, in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 18;

contro

Condominio dell’edificio sito in Napoli, via Orsi nn. 10, 18 e 36, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Ernesto Procaccini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Stefania Iasonna, in Roma, via Salaria, n. 227;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Napoli, Sezione IV, n. 3425 del 2000, di accoglimento del ricorso proposto dal Condominio di Via Orsi nn. 8, 10 e 36, per l’annullamento della disposizione dirigenziale n. 3290 del 2.4.1999 con la quale è stato ingiunto il pagamento in solido della sanzione di £ 426.762.000 per opere realizzate in parziale difformità dalla licenza edilizia rilasciata con provvedimento sindacale n. 4/1949;

 

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Condominio intimato;

Vista la memoria prodotta dalla parte resistente a sostegno delle proprie difese;

Visti i decreti 13 giugno 2012 n. 1560 e 19 settembre 2012, n. 2370;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 giugno 2013 il Cons. Antonio Amicuzzi e uditi per le parti gli avvocati Pafundi, per delega dell'Avvocato Ferrari, e Scopa, per delega dell'Avvocato Procaccini;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 

FATTO

Con il ricorso in appello in esame il Comune di Napoli ha chiesto l’annullamento o la riforma della sentenza del T.A.R. in epigrafe indicata con la quale è stato accolto, per difetto di motivazione e violazione del principi di retroattività delle sanzioni amministrative, il ricorso proposto dal Condominio dell’edificio sito in Napoli, alla Via Orsi nn. 8, 10 e 36, per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 3290/1999, di ingiunzione di pagamento della somma di £ 426.762.000 a titolo di sanzione pecuniaria ex l. n. 47/1985 per difformità dell’immobile rispetto alla originaria concessione edilizia n. 4/1949.

A sostegno del gravame sono stati dedotti i seguenti motivi:

1.- Erroneità dell’affermazione del Giudice di primo grado circa la necessità della motivazione, all’atto della irrogazione della sanzione pecuniaria di cui trattasi, in ordine ai motivi di pubblico interesse idonei a giustificare la modifica di un assetto consolidato da lunghissimo tempo, non essendo ciò necessario quando si proceda alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

2.- La tesi del T.A.R. che la sanzione applicata ex art. 12 della l. n. 47/1985 non può essere retroattiva è smentita dalla circostanza che le norme di cui al capo I della l. n. 47/1985 sono relative alla attività di controllo urbanistico edilizio e vanno applicate ogni volta che viene accertato l’abusività dell’opera, indipendentemente dall’epoca della sua commissione, considerato che l’illecito ha carattere permanente.

E’ inesatto il riferimento all’art. 40 della l. n. 47/1985 effettuato dal T.A.R. perché esso si applica solo se nel termine prescritto non venga presentata la domanda di cui all’art. 31 e si accertino opere eseguite in difformità o in assenza di concessione.

Con atto depositato il 10.1.2002 si costituito in giudizio il Condominio intimato, che ha dedotto la infondatezza dell’appello ed ha riproposto tutti i motivi di ricorso di primo grado dichiarati assorbiti dal T.A.R., tra l’altro reiterando la eccezione di difetto di legittimazione passiva e contestando i criteri di calcolo seguiti.

Con memoria depositata il 26.3.2010 si sono costituiti due nuovi difensori per il Comune appellante, riportandosi alle già assunte conclusioni.

Con decreto 13 giugno 2012 n. 1560, visto l’art. 1 dell’allegato n. 3 al d. lgs. n. 104/2010, il ricorso è stato dichiarato perento.

Con decreto 19 settembre 2012, n. 2370, visto l’atto con il quale è stata dichiarata la persistenza di interesse al ricorso, è stato revocato detto decreto n. 1560/2012 ed è stata disposta la reiscrizione della causa sul ruolo.

Con memoria depositata il 10.5.2013 il resistente Condominio ha ribadito tesi e richieste.

Alla pubblica udienza del 25.6.2013 il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione alla presenza degli avvocati delle parti come da verbale di causa agli atti del giudizio.

DIRITTO

1.- Il giudizio in esame verte sulla richiesta, formulata dal Comune di Napoli, di annullamento o di riforma della sentenza del T.A.R. in epigrafe indicata con la quale è stato accolto il ricorso proposto dal Condominio di Via Orsi nn. 8, 10 e 36 per l’annullamento della disposizione dirigenziale n. 3290 del 2.4.1999, con la qualecui è stato ingiunto ai proprietari ivi indicati il pagamento in solido della sanzione pecuniaria, ex l. n. 47/1985, di £ 426.762.000 per opere realizzate in parziale difformità dalla licenza edilizia rilasciata con provvedimento sindacale n. 4/1949.

2.- Con il primo motivo di appello è stato sostenuto che il Giudice di primo grado ha erroneamente affermato che, all’atto della irrogazione di detta sanzione pecuniaria, avrebbero dovuto essere esplicitati i motivi di pubblico interesse idonei a giustificare lo sconvolgimento dell’assetto consolidato da lunghissimo tempo.

L’obbligo di motivazione sussisterebbe infatti per la P.A. quando viene giustificata la scelta della sanzione della demolizione e sia decorso lungo tempo dalla costruzione dell'opera, ma non quando, come nel caso che occupa, si procede alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

2.1.- Osserva la Sezione che è pacifico nel caso di specie che le difformità emerse rispetto alla licenza edilizia risalivano all’epoca della costruzione dello stabile interessato e che l’intervento sanzionatorio in contestazione è stato compiuto dopo circa mezzo secolo dalla commissione dell’abuso.

Peraltro l’Amministrazione non ha contestato la affermazione che l’abuso di cui si tratta era addebitabile alla sola impresa costruttrice (unica proprietaria, al tempo, dell’edificio), facendo perciò risalire la violazione ad epoca anteriore alla nascita del condominio e agli acquisti individuali delle singole unità immobiliari da parte dei condomini.

Condivisibilmente quindi il primo Giudice, riconosciuta la sussistenza di legittimo affidamento della parte sanzionata, stante la presunzione di buona fede, sulla regolarità dell’immobile di cui trattasi e la ragionevole presunzione, ingenerata dalla prolungatissima inerzia dell’Amministrazione, che eventuali irregolarità sarebbero state ormai tollerate, ha riconosciuto la fondatezza della doglianza di difetto di motivazione formulata con il ricorso introduttivo del giudizio, affermando che nella fattispecie la sanzione inflitta avrebbe potuto essere adottata solo sulla base di un interesse pubblico specifico e concreto, idoneo a giustificare l’intervento dell’Amministrazione su un assetto da lungo tempo ormai consolidato, mentre il provvedimento impugnato non recava traccia alcuna di una tale motivazione.

Costituisce invero principio consolidato che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche per il carattere permanente degli illeciti edilizi, o per lo meno dei loro effetti), sicché l’Amministrazione che intenda irrogare in concreto la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione non è tenuta a motivare in ordine alle ragioni che la inducono a disporre tale sanzione a distanza di tempo dall’abuso (Consiglio di Stato, Sezione V, 8 giugno 1994, n. 614).

Pure consolidato è il principio che i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare (Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 maggio 2011, n. 2781, 5 aprile 2012, n. 2038 e 28 gennaio 2013, n. 496) perché il potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, non è soggetto ad esaurimento, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso” (Consiglio di Stato, Sezione IV, 4 maggio 2012, n. 2592).

Ritiene tuttavia la Sezione che il criterio dell’indifferenza dell’epoca di commissione dell’abuso non può essere applicato con meccanicismo indiscriminato ed illimitato e, in particolare, che quando la costruzione in rilievo sia munita di un titolo edificatorio (venendo in questione delle semplici difformità dal medesimo) e siano passati svariati decenni dalla commissione della presunta violazione, la sottoposizione dei privati cittadini a procedimento sanzionatorio scuote per ciò stesso il valore della certezza delle situazioni giuridiche.

Tanto più sono destinate a sorgere delle criticità quando l’azione sanzionatoria dell’Amministrazione si indirizzi, come nel caso di specie (oltre che nei confronti di semplici aventi causa dal responsabile della presunta violazione, o, addirittura, di acquirenti dai suddetti aventi causa), i quali fino a prova contraria hanno acquistato i rispettivi immobili, a suo tempo, ad un prezzo di mercato ragguagliato alla loro consistenza oggettiva), nei confronti di un Condominio non ancora costituito all’epoca della commissione della rilevata violazione edilizia.

L’attivazione del potere repressivo a tale distanza di tempo rende, fra l’altro, oltremodo difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa da parte, nel caso di specie, dell’intimato Condominio (a prescindere dalla effettività della sua legittimazione passiva), oltre che degli attuali proprietari, e, soprattutto, improba ogni iniziativa di rivalsa, da parte delle parti intimate degli intimati, nei riguardi degli effettivi responsabili dell’abuso.

In tali casi estremi non si può non ritenere, dunque, che l’onere della motivazione dell’iniziativa sanzionatoria si impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di prescrizione-decadenza per l’esercizio del potere repressivo.

L’esistenza, in casi eccezionali, di possibili deroghe al principio che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia non necessiti di particolari motivazioni oltre l’affermazione della accertata abusività dell’opera, perché relativo ad attività vincolata, è stata affermata anche da consolidata giurisprudenza, che ha fatto salva l'ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. Ipotesi, in relazione alla quale è ravvisabile un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all'entità ed alla tipologia dell'abuso, il pubblico interesse - evidentemente diverso da quello al mero ripristino della legalità - idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (Consiglio di Stato, Sezione V, 25 giugno 2002 n. 3443; 29 maggio 2006, n. 3270).

Anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione del 19 maggio 1983, n. 12, pur osservando che, nella dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 della l. n. 765/1967, la constatazione dell'abusività dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a condizionarne la concreta operatività, senza necessità di alcuna ulteriore attività di intermediazione amministrativa volta ad apprezzare altri aspetti della vicenda, aveva avvertito che tale principio poteva però subire un’attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia dell’Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata “un lasso di tempo molto rilevante”.

Un onere di motivazione si può quindi eccezionalmente configurare ove il decorso di un lasso di tempo davvero notevole (nella specie, circa 50 anni) fra la realizzazione dell'opera irregolare, ma munita pur sempre di un formale titolo, e l'adozione della misura repressiva, abbia ingenerato un solido affidamento in capo alla parte intimata (specialmente ove si tratti di un terzo acquirente).

Tale onere di motivazione non potrebbe non chiamare in causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la condizione di possibile buona fede dei soggetti che si vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ritratto dall’illecito.

Negli eccezionali casi accennati, infine, non vi sarebbe ragione di circoscrivere l’indicato onere motivatorio all’eventualità che l’Amministrazione intenda applicare in concreto la sola misura demolitoria, esonerandola nella diversa ipotesi in cui debba essere invece inflitta una sanzione pecuniaria.

Non si vede, infatti, quale ragione potrebbe giustificare un trattamento antitetico delle due misure (tanto più in una fattispecie che esemplifica in modo eloquente la considerevole incidenza che anche una sanzione pecuniaria può rivestire).

L’art. 12 della legge n. 47, in tema di “opere eseguite in parziale difformità” dal titolo, subordina l’applicazione della sanzione pecuniaria all’eventualità che quella demolitoria non possa avvenire senza pregiudizio della parte conforme al titolo, con il risultato di assegnare alla prima misura una funzione non autonoma, bensì surrogatoria della seconda.

La giurisprudenza è orientata, appunto, nel senso che in materia edilizia la sanzione pecuniaria ha anch’essa una funzione di reintegrazione della legalità violata, e, più specificamente, una finalità riparatoria per equivalente della lesione dell’interesse pubblico arrecata dalla violazione edilizia (Consiglio di Stato, Sezione II, 13 novembre 1996, n. 1026; Sezione V, 8 giugno 1994, n. 614; Ad. Pl., 17 maggio 1974, n. 5; inoltre Sezione V, 15 aprile 2013, n. 2060 con riguardo alla finalità non punitiva, ma ripristinatoria delle sanzioni pecuniarie per abusi edilizi).

L’omogeneità della funzione delle due forme di sanzione giustifica, pertanto, la loro assimilazione anche per quanto concerne l’onere motivatorio in discussione.

Per le considerazioni in precedenza espresse il primo motivo di appello si rivela infondato in tutti i suoi aspetti.

3.- Con il secondo mezzo di gravame è stato dedotto che il T.A.R. ha sostenuto anche la irretroattività della sanzione applicata ex art. 12 della l. n. 47/1985 di cui trattasi, senza considerare che, poiché le norme di cui al capo I di detta legge sono relative alla attività di controllo urbanistico edilizio, esse andrebbero applicate ogni volta che viene accertatao l’abusività dell’opera, indipendentemente dall’epoca della sua commissione, considerato che l’illecito ha carattere permanente.

Pertanto il momento di riferimento per l’individuazione della normativa applicabile per procedere a sanzionare l’abuso sarebbe quello in cui l’Amministrazione, venuta a conoscenza del fatto, ne riscontra la illegittimità e applica la normativa sanzionatoria.

Poiché la sanzione pecuniaria ha natura riparatoria e non punitiva sarebbe insussistente qualsiasi analogia con la irretroattività della norma penale.

Sarebbe anche inesatto il riferimento all’art. 40 della l. n. 47/1985 effettuato dal T.A.R., perché esso si applica se nel termine prescritto non venga presentata la domanda di cui all’art. 31 e si accertino opere in difformità o in assenza di concessione; la norma rappresenterebbe quindi una specificazione dell’applicazione delle sanzioni da applicare quando il responsabile non si sia avvalso della facoltà di ottenere il condono, ma ciò non potrebbe essere inteso nel senso che le stesse sanzioni del capo I non si applichino ogniqualvolta si accerti una difformità dell’opera dalla concessione o l’opera risulti abusiva. Ciò anche perché l’art. 2 di detta legge ha espressamente previsto la sostituzione delle precedenti norme sanzionatorie operata dal capo I della l. n. 47/1985 e ribadito la applicabilità della legge in via generale per ogni abuso in qualsiasi tempo commesso, purché conosciuto nel vigore di detta legge.

3.1.- Premette il Collegio che, se è vero che il divieto di norme sanzionatorie retroattive è costituzionalmente previsto per le sole norme penali, ciò non toglie che per le sanzioni amministrative debba pur sempre valere il generale canone di irretroattività posto dall’art. 11 disp. prel. cod. civ..

La giurisprudenza di questa Sezione ha invero già da tempo puntualizzato che le sanzioni amministrative comminate dalla l. n. 47/1985 non sono generalmente applicabili con effetto retroattivo e non possono essere perciò irrogate per costruzioni portate a compimento prima dell'entrata in vigore della fonte stessa (Consiglio di Stato, Sezione V, 8 aprile 1991, n. 470).

Pertanto, le sanzioni amministrative previste da detta legge n. 47/1985 non sono irrogabili per le costruzioni completate prima dell'entrata in vigore della legge, dovendosi applicare quelle prescritte dalla normativa vigente all'epoca dell'abuso. E questo vale, in particolare, per la sanzione pecuniaria da infliggere a norma di tale fonte, sanzione applicabile soltanto alle violazioni commesse successivamente all’entrata in vigore di questa, dal momento la relativa disposizione normativa non ha valore retroattivo (Consiglio di Stato, Sezione V, 12 marzo 1992, n. 214).

Tanto, appunto, in virtù del principio generale dell'art. 11 disp. prel. Cod. civ., e stante la mancanza di un’espressa previsione che ne ammetta l'irrogazione anche retroattiva (Consiglio di Stato, Sezione V, 27 settembre 1990, n. 695).

Aggiungasi che la riconosciuta irretroattività delle sanzioni previste dalla l. n. 47/1985 è maggiormente giustificata nel caso di specie, in cui il Comune ha inteso applicarle ad un evento verificatosi circa cinquanta anni prima, in violazione dell’affidamento eccezionalmente ingeneratosi, come in precedenza evidenziato, nella parte intimata e non responsabile dell’abuso accertato nel corso di tale lunghissimo arco di tempo, stante il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, in violazione del fondamentale principio di certezza dei rapporti giuridici.

Oltre che di dette disposizioni sanzionatorie, non è consentita infatti, l’applicazione retroattiva anche delle norme innovative, in assenza di adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, tra i quali va inclusa anche la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei destinatari, in quanto principio connaturato allo Stato di diritto (Consiglio Stato, Sezione VI, 23 marzo 2010, n. 1689).

4.- L’appello deve essere conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione con motivazione in parte diversa.

Tanto esime la Sezione dall’esaminare i motivi di ricorso di primo grado dichiarati assorbiti con la sentenza in esame e riproposti in appello dalla parte contro interessata.

5.- Nella complessità e parziale novità delle questioni trattate il Collegio ravvisa eccezionali ragioni per compensare, ai sensi degli artt. 26, comma 1, del c.p.a e 92, comma 2, del c.p.c., le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente decidendo respinge l’appello in esame con motivazione in parte diversa.

Compensa le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:

Mario Luigi Torsello, Presidente

Antonio Amicuzzi, Consigliere, Estensore

Nicola Gaviano, Consigliere

Carlo Schilardi, Consigliere

Raffaele Prosperi, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/10/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)