L'apoteosi del partito delle terre da scavo

di Gianfranco AMENDOLA


E’ notizia di questi giorni che la Procura di Firenze ha in corso indagini con misure cautelari per qunto concerne i lavori della TAV e, in particolare, per pesanti interventi a livello ministeriale e politico al fine di escludere i materiali residuati dall’ambito della disciplina sui rifiuti.
Ovviamente, prescindiamo totalmente da questa vicenda, tutta da chiarire, ma è certo che, comunque, i nostri governanti hanno da sempre avuto un occhio di riguardo per quelle terre da scavo fortemente contaminate prodotte dalle grandi opere, in particolare dalla TAV; ovvero scavate in aree fortemente antropizzate o dismesse, già di fatto sature di residui e rifiuti di ogni genere (quali tutte quelle dei grandi centri abitati; ad esempio, quelle per l’ampliamento del GRA di Roma).
Secondo la normativa europea, le terre da scavo non naturali o contaminate  sono, di regola, rifiuti e, quindi, sono sottoposte “dalla culla alla tomba” ad una rigorosa disciplina onde evitare che provochino pericoli ed inquinamenti. Il che, ovviamente, comporta notevoli costi e impegni per le imprese, nonché, per i loro titolari, l’eventualità di subire processi penali in caso di inosservanza (ad esempio, per discarica abusiva); circostanza spesso ricorrente nel nostro paese soprattutto in concomitanza, appunto, con i lavori per la TAV.
Da ben 16 anni, la risposta dei nostri governanti è stata univoca: per questi poveri industriali  occorre assicurare non il rispetto ma l’elusione della legge; e così, è dal 1997 che l’Italia cerca, con diversi espedienti, di sancire, in contrasto con l’Europa, che non si tratta di rifiuti ma di innocui prodotti naturali e, come tali, non soggetti ad alcun obbligo e “riutilizzabili” liberamente dovunque senza alcuna spesa e senza alcun controllo.
Intendiamoci subito: l’alternativa, ovviamente, non consiste nel riempire le discariche con terre da scavo. Nulla vieta, ed anzi è auspicabile, che le terre da scavo siano riutilizzate per ulteriori opere invece che andare in discarica ma ciò non può che avvenire con tutte le garanzie, i controlli e i trattamenti che la legge prevede per il recupero di rifiuti, e non certo attraverso la loro liberalizzazione. Specie quando si tratta di terre da scavo contaminate.
Ciò premesso, riassumiamo velocemente questa lunga e allucinante storia, stranamente ignorata dai nostri maggiori mezzi di informazione:

1) Già la prima versione del D.Lgs. n. 22/1997 sui rifiuti (decreto Ronchi), ampliando a dismisura le eccezioni della direttiva CEE in recepimento, escludeva dal suo campo di applicazione “i materiali non pericolosi che derivano dall'attività di scavo”, classificando invece quali “rifiuti speciali” i “rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo”. Trattandosi di eccezione non prevista in sede comunitaria, il 29 settembre 1997 la Commissione U.E. iniziava procedura di infrazione contro l'Italia e così lo stesso governo con il D.Lgs. n. 389 dell' 8 novembre 1997 eliminava questa eccezione.

2) Tre anni più tardi, il 28 luglio 2000, con l’inizio di diversi processi per gli scavi TAV, l'ufficio legislativo del Ministero dell'ambiente emanava una singolare “nota” con cui, appunto, rendeva nota la sua opinione e cioè che “non debbano essere qualificate rifiuto e, di conseguenza, non rientrino nel campo di applicazione del D.Lgs. 22/97 le terre da scavo che presentino concentrazioni di inquinanti inferiori ai limiti accettabili stabiliti dal D.M. 471/99 per i siti a uso residenziale, verde privato e pubblico e che siano destinate al normale ciclo di utilizzo della terra , quali, a mero titolo esemplificativo, sottofondi e rilevati stradali, rimodellamenti morfologici, usi agricoli, riempimenti ecc…”. Ovviamente, questa opinione non aveva alcuna rilevanza per la magistratura, soggetta solo alla legge, e quindi la Cassazione non ne teneva alcun conto nei processi penali, che andavano avanti.

3) A questo punto, interveniva nuovamente il legislatore: l'art. 10 della legge 23 marzo 2001 n. 93 (“Disposizioni in campo ambientale”, approvata in commissione pochi minuti prima della fine della legislatura), infatti, sanciva nuovamente che sono escluse dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti “le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti”. Ma, in realtà, tale esclusione non era operativa perché mal formulata sotto il profilo tecnico-giuridico. Necessitava, quindi, un altro intervento legislativo. E cosí, pur essendo cambiati governo e maggioranza, senza più alcun ritegno, l' art. 1 della legge 21 dicembre 2001 n. 443 per “il rilancio delle attività produttive” (cd. “legge Lunardi”), sanciva che “il comma 3, lettera b), dell'articolo 7 ed il comma 1, lettera f-bis) dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 22 del 1997, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall'ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti” (comma 17). Insomma, una “interpretazione autentica” all’italiana della normativa comunitaria che diceva esattamente quanto non diceva la stessa normativa comunitaria e che era smaccatamente riferita ai lavori per la TAV. Tanto è vero, che, come era logico aspettarsi, nel 2002 la UE iniziava nuova procedura di infrazione, al termine della quale l’Italia veniva condannata dalla Corte Europea di giustizia con sentenza del 18 dicembre 2007, in quanto << è giocoforza constatare che tali disposizioni finiscono per sottrarre alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell’ordinamento italiano, taluni residui che invece corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), della direttiva>> . Ma intanto, numerosi industriali TAV erano stati assolti.

4) E così, arriviamo al cd. Testo Unico Ambientale (D. Lgs 152/2006 e succ. modif. del 2008 e del 2010) ancora oggi vigente, in cui il legislatore, sapendo di essere sotto tiro dell’Europa, era costretto a fare marcia indietro e a cambiare strategia. Adesso si punta a qualificare le terre da scavo nella categoria dei “sottoprodotti” (e non rifiuti). Ma, quando si arriva al dunque, ci si accorge che i requisiti stabiliti dalla normativa comunitaria per i sottoprodotti, soprattutto in tema di tutela dell’ambiente, con il divieto di compiere trasformazioni preliminari e con l’obbligo di riutilizzo diretto, sono di ostacolo alla totale liberalizzazione che si vuole perseguire.

5) Interviene, allora, il governo Monti con alcune pesanti modifiche legislative risultanti dal  combinato disposto dell’art. 3 (Interpretazione   autentica   dell'articolo   185   del    decreto legislativo n. 152 del 2006, disposizioni  in  materia  di  matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti) del decreto-legge 25 gennaio 2012, n. 2 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 28 («Misure straordinarie e urgenti in materia ambientale.») e dell’art. 49 (Utilizzo terre e rocce da scavo) del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27 («Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.»). In tal modo, da un lato ci si svincola dai requisiti generali del sottoprodotto, sancendo che per le terre da scavo la qualifica di sottoprodotto sarà soggetta ad apposite condizioni che saranno stabilite da un apposito regolamento da emanare con decreto governativo, e dall’altro, con la solita “interpretazione autentica”, si amplia ben oltre il consentito l’ambito delle terre da scavo, - che, secondo la normativa comunitaria dovrebbero comprendere solo il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale-, inserendovi anche materiali del tutto estranei e contaminati che vengono chiamati “matrici materiali di riporto”.

6) L’apoteosi si raggiunge con l’emanazione del regolamento di cui sopra (D.M. 10 agosto 2012) in cui si forniscono delle nozioni di materiali di riporto di origine antropica e di materiali da scavo tali che nelle terre da scavo ci può essere di tutto (fra cui, ad esempio, calcestruzzo, bentonite, polivinilcloruro (PVC), vetroresina, miscele cementizie e additivi per scavo meccanizzato) ed è un miracolo se ci rimane anche un po’ di terra. Nello stesso tempo, si riscrivono le condizioni per considerarle sottoprodotto (e non rifiuto) allargando, ovviamente, le rigide maglie della normativa europea sia per quanto concerne l’origine (per l’Italia basta vi sia un’opera, mentre per la Ue occorre un processo di produzione), sia per quanto concerne la tutela della salute e dell’ambiente (l’Italia parla solo di requisiti di qualità ambientale e si dimentica della salute); sia, soprattutto per quanto concerne i trattamenti consentiti che, per la UE, qualora non vi sia riutilizzo tal quale, sono solo quelli della“normale pratica industriale” mentre per l’Italia si consentono, tra l’altro, oltre alla selezione granulometrica ed alla riduzione volumetrica mediante macinazione, anche “la stabilizzazione a calce, a cemento  o  altra  forma  idoneamente sperimentata….”
Del resto, una volta stabilito che nelle terre da scavo ci può essere di tutto senza che, per questo, siano considerate rifiuti, non ci si può stupire se poi si è costretti a consentire che in esse occorre ridurre tutte le sostanze, i residui e i rifiuti di lavorazione presenti in grandi quantità; tipici trattamenti per il recupero di rifiuti e non certo per materiali naturali “vergini”. Stupisce solo che un decreto governativo abbia il coraggio di dichiarare che si tratta di operazioni di normale pratica industriale per terre che dovrebbero essere “naturali” e “non contaminate”.
Ma vi è di più. Perché il decreto conclude trionfalmente che mantiene la caratteristica di sottoprodotto (quindi non è un rifiuto) “quel materiale  di  scavo anche qualora contenga la presenza di pezzature eterogenee di natura antropica non inquinante, purchè rispondente ai requisiti tecnici/ prestazionali per l'utilizzo delle terre  nelle  costruzioni, se tecnicamente fattibile ed economicamente sostenibile”. Insomma quel che conta è la “sostenibilità economica” per le imprese, non la tutela della salute e dell’ambiente.

7) Ma non finisce qui. Nel 2013, l’art. 41, comma 3, lett. a), D.L. 21 giugno 2013 n. 69, convertito con legge 9 agosto 2013 n. 98 (decreto del fare) , ritorna sulla nuova definizione delle terre da scavo e aggiunge la specificazione che queste “matrici” sono “costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri”. E precisa che questa definizione  “integra, a tutti gli effetti, le corrispondenti disposizioni del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”. In tal modo si chiude il cerchio ed appare evidente lo scopo di tutta questa cortina fumogena sulle definizioni. Si sancisce, cioè, che per l’Italia, nelle esclusioni dalla disciplina sui rifiuti previste dalla direttiva UE e dall’art. 185 D. Lgs 152/06 per il “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale”, rientra o può rientrare anche il suolo contaminato da rifiuti (“residui e scarti di produzione e di consumo”).
Proprio mentre paradossalmente, negli stessi giorni, la Suprema Corte ribadiva, con riferimento alle  modifiche del 2012, esattamente il contrario, e cioè che esse non possono riguardare un terreno composto “da materiali da riporto di provenienza antropica, oltre che da rifiuti di vario genere, costituiti da sfabbricidi ed elettrodomestici, in nessun caso qualificabili come <<suolo>> o <<materiale allo stato naturale escavato>>” 1.

8) Purtroppo, non è tutto. Perché, forse accorgendosi che si era esagerato, sempre nel D.L. 21 giugno 2013 n. 69, convertito con legge 9 agosto 2013 n. 98, l’art. 41 D.L. comma 2, limita l’ambito di applicazione del regolamento prescrivendo che esso si applica solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o  opere  soggette  a  valutazione  d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale”; in sostanza, quindi, alle grandi opere.

9) Cinque (5) giorni dopo, la legge 26 giugno 2013 n. 71, convertendo il D.L. 26 aprile n. 43 (relativo a <<disposizioni urgenti per il rilancio dell’area industriale di Piombino, di contrasto ad emergenze ambientali, in favore delle zone terremotate del maggio 2012 e per accelerare la ricostruzione in Abruzzo e la realizzazione degli interventi per Expo 2015>> aggiungeva un art. 8-bis dove, al primo comma, ripete la limitazione del D. L. 69 (il regolamento vale solo per materiali da AIA o VIA); il che è del tutto superfluo. Ma, al secondo comma fa rivivere, per i piccoli cantieri, l’art. 186 D. Lgs 152/06 , - e cioè la “vecchia disciplina” con le condizioni  per considerare sottoprodotti le terre da scavo-, che era stato abrogato nel 2012 dal giorno dell’entrata in vigore del regolamento stesso.
A questo punto, bene o male era stata dettata la disciplina per i materiali da AIA e VIA nonché per quelli dei piccoli cantieri. E per tutti gli altri materiali da scavo?

10) Il legislatore ci pensa un po’ e meno di 2 mesi dopo, l’art. 41-bis, inserito in agosto, con la legge n. 98 di conversione del D.L. 69/013 cit., in tema di materiali da scavo-sottoprodotti, da un lato precisa che, se pure il regolamento vale solo per materiali da AIA o VIA,  la amplissima definizione dei materiali da scavo contenuta nello stesso “integra, a tutti gli effetti le corrispondenti disposizioni del D. Lgs 152/06” (comma 7), quindi in via generale e per tutti; dall’altro detta particolari disposizioni valide sia per cantieri di piccole dimensioni sia per tutti i “materiali da scavo derivanti da attività e opere non rientranti nel campo di applicazione del comma 2-bis dell'articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, introdotto dal comma 2 dell'articolo 41 del presente decreto” (comma 5), e cioè, appunto, per i materiali da scavo diversi da quelli connessi con VIA o AIA.
Disposizioni ovviamente di favore e basate sulla autocertificazione del possibile inquinatore, che, sono ben diverse da quelle contenute nell’art. 186 D. Lgs 152/06 risuscitato meno di due mesi prima per i cantieri di piccole dimensioni dal citato art. 8-bis della legge 71.
E allora che facciamo per questi piccoli cantieri? Niente paura. Ci pensa il nostro ineffabile legislatore che abroga l’art. 8-bis facendo morire per la seconda volta, dopo meno di due mesi, anche il povero art. 186.
In conclusione, quindi, oggi (ma forse non è finita) i materiali da scavo -il cui ambito è stato allargato dall’Italia oltre ogni decenza-, per essere esclusi dalla disciplina sui rifiuti ed essere considerati sottoprodotti devono rifarsi o alle disposizioni del regolamento (se si tratta di opere con VIA o AIA) o a quelle di cui all’articolo 41-bis sopra citato.
Ma è facile prevedere quale confusione si creerà nell’applicazione di questo assurdo groviglio di leggi. E soprattutto è facile prevedere che, come sempre, chi ne farà le spese sarà il popolo inquinato.