La nuova definizione di sottoprodotto ed il trattamento secondo la “normale pratica industriale”
di Luca PRATI

 

Nella complessa e controversa materia relativa alla definizione di “sottoprodotto” le modifiche introdotto dal recepimento della Direttiva 2008/98/CE, intervenuto con il D. Lgs. 205/2010, debbono certamente essere salutate positivamente, dato che esse contribuiscono a correggere alcune evidenti storture della previgente  nozione.

La nozione di “sottoprodotti” compare, per la prima volta, in termini di diritto positivo, nell’art. 5 della nuova direttiva (mentre, come è noto, era assente nelle precedenti). Nell’ambito dell’annosa distinzione fra rifiuti  e sottoprodotti la Direttiva sottrae al regime dei rifiuti quei prodotti che, pur non costituendo “lo scopo primario delle produzione”, ne formano parte integrate, possono essere e sono ulteriormente e legalmente utilizzati per sé o per altri, senza trattamento ulteriore o con un trattamento che rientra nella “normale pratica industriale”.

Le condizioni poste dalla direttiva erano in parte già rinvenibili nella giurisprudenza comunitaria ed in parte recepite in leggi nazionali, come nel caso dell’ordinamento italiano che aveva definito il sottoprodotto nella lett. n) del comma 1, dell’art. 183, del T.U. ambiente, poi modificato dal nuovo art. 183 comma 1, lett. p), del “secondo correttivo”, ora nuovamente novellato con l’introduzione dell’art. 184 - bis

Esaminando nel dettaglio il nuovo articolo 184-bis[1] del sui sottoprodotti, si rileva come  vengano ora previsti criteri di individuazione dei sottoprodotti in parte differenti rispetto alla formulazione in precedenza vigente dell’art. 183, comma. 1, lett. p), che tra l’altro richiedeva che  la sostanza o l’oggetto dovessero essere impiegati direttamente dall’impresa che li produce, che la commercializzazione avvenisse a condizioni economicamente favorevoli e che non fosse necessario operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo.

Il nuovo art. 184-bis del D. lgs. n. 152 del 2006 prevede innanzitutto che la sostanza, per essere un sottoprodotto, debba essere originata da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, ed il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto. Come è già stato chiarito dalla comunicazione del 21.02.2007 della Commissione CE, lo scopo primario, di fatto, coincide con la  “produzione deliberata o meno del materiale, proprio al fine di tener distinti i prodotti industriali dai c.d.  “sottoprodotti”[2]. Ogniqualvolta l’oggetto o la sostanza siano prodotto intenzionalmente, essi costituiranno “prodotti industriali” primari, mentre ciò che è prodotto non intenzionalmente sarà, a seconda dei casi, rifiuto o sottoprodotto.

La condizione relativa al fatto che il materiale debba essere “parte integrante del processo produttivo non pone insormontabili problemi interpretativi; in estrema sintesi, sono certamente “parte integrante” della produzione tutte quelle sostanze che decadono in via continuativa, periodica o comunque non saltuaria dal processo di produzione di un determinato bene  intenzionalmente prodotto. Basti pensare agli sfridi  e ai  cascami di una industria metallurgica, ai prodotti chimici generati da una reazione diretta a sintetizzare un diverso composto, ai trucioli di un mobilificio, e gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Al contrario, non potrebbe invece essere considerato sottoprodotto tutto ciò che non sia originato con una minimo di regolarità dal ciclo produttivo, venendo generato solo in modo episodico. Si pensi ad esempio ad una partita di prodotti difettosi, o ad una sostanza generata da una reazione chimica fuori controllo: essi rappresentano una anomalia nel ciclo produttivo, e certo non ne sono parte integrante.

Per quanto attiene alla necessità dell’impiego del sottoprodotto nel medesimo o in diverso ciclo produttivo, va evidenziato come la nuova nozione  non renda  più necessario che l’oggetto o la sostanza vengano impiegati nel medesimo ciclo che lo ha originato, e neppure che siano destinati a produrre un diverso bene; anche la diretta utilizzazione del residuo (ad esempio per la produzione di energia) non fa infatti venir meno la nozione di “sottoprodotto”, in presenza delle altre condizioni di legge.

Deve essere poi certo che la sostanza o l’oggetto saranno utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale. Infine è necessario che l’ulteriore utilizzo sia legale, ossia che la sostanza o l’oggetto soddisfi, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porti a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

La certezza del riutilizzo sussiste ogni qualvolta esista una prassi consolidata e dimostrabile per cui un determinato oggetto o sostanza viene ad essere inviato  con regolarità ad un ciclo produttivo atto ad impiegarlo all’interno dei propri processi. Dal punto di vista pratico, tale requisito potrà essere più agevolmente dimostrato qualora vi siano rapporti contrattuali in essere tra il soggetto che genera il residuo e quello (o quelli ) che lo ricevono. Ha precisato al riguardo la Commissione nella comunicazione del 21.02.2007  che “l'esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo”. Ciò non sempre sarà possibile, ma in ogni caso l’esistenza di una prassi commerciale consolidata non può che deporre per la (ragionevole) certezza (da intendersi come elevata probabilità) relativamente all’impiego dell’oggetto o sostanza. Il ricorrere del requisito della certezza può essere anche comprovato, in una valutazione del grado di probabilità del successivo utilizzo dello stesso materiale, da elementi quali il vantaggio economico da esso derivante e/o dalla durata delle operazioni di deposito. Tale è infatti l'orientamento consolidato della Corte europea.  (cfr. sentenza 18 dicembre 2007, causa C-194/05).

Il requisito certamente più spinoso da interpretare è però quello che impone l’utilizzo del materiale “direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.

Cosa sia la “normale pratica industriale” è, evidentemente, questione tutt’altro che semplice ed univoca, e tuttavia basilare. Il richiamo alla “normale pratica industriale” è infatti essenziale per l’identificazione dei trattamenti ammessi sui residui di produzione senza che essi divengano, in forza di tali trattamenti, rifiuti .

Da un lato  infatti la “normale pratica industriale” non può essere eccessivamente circoscritta, pena la sostanziale abrogazione dell’art. 184-bis, primo comma. Dall’altro lato però essa non può neppure abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un ciclo produttivo, altrimenti si finirebbe per trasformare anche ogni operazione di recupero di rifiuti tra quelle elencate ai punti da R1 ad R13 dell’Allegato II alla Direttiva in un trattamento preliminare all’utilizzo di sottoprodotto.

Per contro, La Corte di Giustizia (sentenza Niselli) , ha anche sostenuto che l'operazione cui viene sottoposto un materiale, che si tratti o meno di un'operazione di trattamento dei rifiuti di cui agli allegati  della direttiva quadro sui rifiuti, non consente di pronunciarsi sulla natura di un materiale,  in quanto molti dei metodi di trattamento indicati nei suddetti allegati possono applicarsi perfettamente anche a un prodotto. Quindi anche un’operazione astrattamente rientrante tra quelle da R1 ad R13 non è incompatibile con il trattamento preliminare di un sottoprodotto.

 

Si impone quindi una lettura sistematica, che consenta di bilanciare due opposte letture che porterebbero entrambe a risultati paradossali

Nonostante l’inevitabile permanere di aree grigie, dovrebbe potersi affermare che certamente rientrano nella “normale pratica industriale tutte quelle attività  industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia  prima,  un intermedio od un prodotto senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale.

Volendo esemplificare, un processo di distillazione o raffinazione di una sostanza, così come la rifusione di uno scarto di produzione metallico, rientrano certamente nella “normale pratica industriale” a prescindere dal fatto che essi intervengano su un materiale “vergine” piuttosto che decadente da un altro processo industriale  finalizzato alla produzione di un diverso bene primario. Si tratta quindi di trattamenti  identici o comunque assimilabili a quelli a cui l’impresa sottopone prodotti, intermedi o materie prime che certamente non costituiscono rifiuti in forza della loro origine.

Al contrario, operazioni che nella pratica vengono di regola effettuate esclusivamente su “residui”, e  dirette a rendere compatibili sotto il profilo ambientale e merceologico detti scarti con i processi produttivi propri dell’impresa utilizzatrice tenderanno con maggiori probabilità a rimanere nell’alveo delle operazioni di recupero elencate dall’Allegato II  della Direttiva e recepite nel D. lgs. 152/2006.

Certamente il rischio della tautologia è sempre in agguato, quindi a confortare una interpretazione maggiormente univoca occorre ricorrere anche l’ultimo dei requisiti richiesti per l’individuazione dei sottoprodotti, con il quale si richiede che “la sostanza o l'oggetto” soddisfino  “ per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente”, senza comportare “impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana”.

So pone cioè l’accento sulla necessità che il “sottoprodotto”, per essere tale, sia sostanzialmente equiparabile, sotto il profilo dell’impatto ambientale e sanitario, al  bene che sostituisce. In sostanza, non debbono essere necessarie speciali operazioni dirette a “innocuizzare” la sostanza perché questa possa essere “normalmente” impiegata nella pratica industriale. Al contrario, un trattamento da cui deriva il medesimo impatto ambientale tanto se effettuato su quel particolare residuo che sul materiale che esso sostituisce, tenderà a rientrare in un “trattamento preliminare” di un sottoprodotto rientrante nella “normale pratica industriale”. Ciò avverrà in genere quando, anche prima di tale trattamento, il “residuo” presenti già caratteristiche merceologiche ed ambientali non radicalmente dissimili, per l’impatto ambientale generato, da beni prodotti intenzionalmente.

Si tratta ovviamente di prime considerazioni tutt’altro che esaustive, in attesa che la giurisprudenza consolidi un orientamento mutuato dalla nuova definizione.

 

Luca Prati

Avvocato in Milano

 

 

 

 


[1] Recita l’art. 184 bis: È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

 

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

 

[2] Si veda P. Giampietro “ Quando un residuo produttivo va qualificato “sottoprodotto” (e non “rifiuto”) secondo l’art. 5, della direttiva 2008/98/CE (Per una corretta attuazione della disciplina comunitaria), pubblicato in www.lexambiente.com. Sulla elaborazione della direttiva sui rifiuti n.2008/98/CE, da parte del Consiglio, Parlamento e  Commissione U.E, si veda David Röttgen del Capitolo II (“La nozione di rifiuto e di sottoprodotto”), pagg. 25-77,  “Commento alla direttiva 2008/CE sui rifiuti”, a cura di F. Giampietro, IPSOA, Milano, 2009. Sul “sottoprodotto” nel T.U. ambientale n. 152/2006, cfr.  L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti”, Celt–La Tribuna, 2006, pagg. 44 e ss.