I progetti non possono essere “spezzettati” per eludere le procedure di valutazione di impatto ambientale.

di Stefano DELIPERI

 

Il Consiglio di Stato, con la sentenza sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36, ha confermato la sentenza T.A.R. Sardegna, sez. II, 6 febbraio 2012, n. 427 (qui in Lexambiente, “Quando il Giudice amministrativo frena la speculazione immobiliare”, 22 febbraio 2012) con una pronuncia di rilevante interesse in tema di applicazione della normativa di derivazione comunitaria in materia di valutazione di impatto ambientale.

La sentenza del Giudice amministrativo di appello tocca, in verità, diverse tematiche di sicuro pregio, dalla legittimazione attiva delle associazioni ambientaliste alla tempestività del ricorso alla sede giurisdizionale, tuttavia sembra opportuno segnalarne l’importanza riguardo l’indirizzo concernente la corretta prassi delle procedure di valutazione di impatto ambientale.

In estrema sintesi, l’iter procedurale dalla Società immobiliare S.I.T.A.S. s.p.a. e avallato dalla Regione autonoma della Sardegna per la realizzazione di un complesso turistico-edilizio lungo la costa meridionale sarda è stato definitivamente dichiarato illegittimo per l’aver spezzettato l’unico progetto turistico-edilizio in cinque comparti ai fini della sottoposizione alle valutazioni di impatto ambientale.

Il quadro normativo vigente prevede che la realizzazione e l’ampliamento di villaggi turistici aventi determinate dimensioni (come ampiamente nel caso in argomento) dev’essere preceduta da positiva conclusione di procedura di verifica di assoggettabilità (screening), ai sensi della direttiva n. 2011/92/UE (allegato II, punto 12, lett. c), che ha razionalizzato e codificato le precedenti direttive n. 97/11/CE (allegato II, punto 12, lett. c) e n. 85/337/CEE (allegato II, punto 11, lett. a), decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. (art. 20, allegati II e IV), legge regionale n. 1/1999 e s.m.i. (art. 31), deliberazione Giunta regionale n. 34/33 del 7 agosto 2012 (allegato B), estesa ad ampliamenti e/o modifiche al fine di verificarne gli impatti cumulativi.

Si tratta di indirizzo della giurisprudenza costante (vds. in particolare Corte di Giustizia CE, Sez. III, 25 luglio 2008, n. 142; Corte di Giustizia CE, Sez. II, 28 febbraio 2008, causa C-2/07; Cons. Stato, Sez. VI, 15 giugno 2004, n. 4163; T.A.R. Sardegna, sez. II, 6 febbraio 2012, n. 427; T.A.R. Sardegna, sez. II, 30 marzo 2010, n. 412).

Nel caso di specie, invece, l’unico progetto turistico-edilizio è stato artatamente suddiviso in cinque comparti e considerato in altrettanti procedimenti di verifica di assoggettabilità.

In proposito il Consiglio di Stato ha ricordato che “la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 5 luglio 2010 n. 4246)” che “la valutazione di impatto ambientale (VIA) è preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità umana (Cons. St., sez. VI, 18 marzo 2008, n. 1109), attribuendo ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di derivazione comunitaria (direttiva 27 luglio 1985 n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati); diritto che obbliga l’amministrazione a giustificare, quantomeno ex post ed a richiesta dell’interessato, le ragioni del rifiuto di sottoporre un progetto a V.I.A. all’esito di verifica preliminare (Corte giust. 30 aprile 2009, C-75/08).

A tali fini, l’ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico–naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona”.

Conseguentemente, “la VIA non può essere, dunque, intesa come limitata alla verifica della astratta compatibilità ambientale dell’intervento, ma si sostanzia in una analisi comparata tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio economica, tenuto conto delle alternative praticabili e dei riflessi della stessa “opzione zero”. In questo senso, la natura discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende fisiologico - e coerente con la ratio dell’istituto innanzi evidenziata - che si pervenga ad una soluzione negativa tutte le volte in cui l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa. Ne discende la possibilità di bocciare progetti che arrechino un vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste (Cons. St., sez. VI, 22 febbraio 2007, n. 933)”.

 

L’attività regionale in materia di verifica di assoggettabilità è risultata, pertanto, illegittima in quanto “nel caso di specie … l’amministrazione … avrebbe dovuto procedere ad una considerazione unitaria dell’intervento, sia in quanto si trattava di definire la pianificazione di un’area complessivamente indicata come turistica (ancorché suddivisa in una pluralità di sub comparti), e dunque già caratterizzata da unitarietà della destinazione, sia in quanto, per le proprie dimensioni – da valutarsi unitariamente, per le considerazioni esposte – l’intervento si poneva (almeno in sede di verifica preliminare, ai sensi dell’art. 10 DPR 12 aprile 1996), come potenzialmente aggressivo dell’ambiente, riguardato sotto i molteplici aspetti indicati innanzi tutto dalla giurisprudenza comunitaria e costituzionale”.

 

Un’autorevole e lodevole conferma della linea giurisprudenziale comunitaria e nazionale tesa a privilegiare gli aspetti sostanziali della disciplina sulla valutazione di impatto ambientale, perché sia concreta ed efficace prevenzione del degrado ambientale.

 

Dott. Stefano Deliperi









N. 00036/2014REG.PROV.COLL.

N. 05565/2012 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5565 del 2012, proposto da: 
Sitas Societa' Iniziative Turistiche Agricole Sarde S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Mario Sanino, Riccardo Montanaro, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180;

contro

Italia Nostra Onlus, rappresentata e difesa dagli avv. Filippo Satta, Anna Romano, con domicilio eletto presso Studio Legale Satta & Associati in Roma, Foro Traiano 1/A;

nei confronti di

Comune di Teulada, rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Bellomia, con domicilio eletto presso Salvatore Bellomia in Roma, via Gradisca, 7; 
Regione Autonoma della Sardegna, rappresentata e difesa dagli avv. Alessandra Camba, Sandra Trincas, con domicilio eletto presso Ufficio Rapp.za Regione Autonoma Sardegna in Roma, via Lucullo 24; 
Ministero per i beni e le attività culturali - Soprintendenza beni architettonici, paessaggistici e patrim. storico, artistico e etnoantropologico delle province di Cagliari e Oristano, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. SARDEGNA - CAGLIARI: SEZIONE II n. 00091/2012, resa tra le parti, concernente approvazione variante progetto piano di lottizzazione turistico alberghiero E1-e.f -loc. Capo Malfatano del Comune di Teulada.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Italia Nostra Onlus , Comune di Teulada , Regione Autonoma della Sardegna e di Ministero per i beni e le attività culturali;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 febbraio 2013 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Mario Sanino, Anna Romano, Filippo Satta, Salvatore Bellomia, Sandra Trincas e l'avvocato dello Stato Giulio Bacosi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO

1. Con l’appello in esame, la SITAS – Società iniziative turistiche agricole sarde s.r.l. impugna la sentenza 6 febbraio 2012 n. 91, con la quale il TAR per la Sardegna ha in parte dichiarato inammissibile, in parte rigettato perché infondato, ed accolto per il resto il ricorso proposto da Italia Nostra Onlus; ricorso rivolto, in particolare, avverso una pluralità di atti adottati dal Comune di Teulada, afferenti a piani di lottizzazione turistico ricettivo residenziale in loc. Capo Malfatano.

La controversia attiene, in sostanza, all’autorizzata realizzazione di un progetto di intervento edilizio con finalità turistico – alberghiera nel comparto E del Comune di Teulada (loc. Capo Malfatano), da articolarsi in cinque distinti piani di lottizzazione, e ciò nell’ambito di sei dei nove sub comparti in cui era stato suddiviso il detto comparto E.

La sentenza impugnata ha preliminarmente ed in parte rigettato (salvo taluni casi) una pluralità di eccezioni di inammissibilità del ricorso, ed in particolare si è così espressa nelle seguenti (più generali) ipotesi (pagg. 20 – 58):

- non è stata ritenuta fondata la contestazione della legittimazione attiva della associazione ricorrente ed il potere di rappresentanza processuale del presidente della stessa, poiché Italia Nostra ha ottenuto la formale classificazione quale “associazione di protezione ambientale a carattere nazionale”, con D.M. Ambiente 20 febbraio 1987, ai sensi dell’art. 13 l. n. 349/1986, ed il Presidente, ex art. 14 Statuto, ha il potere di “promuovere giudizio e di resistere in tutte le sedi giurisdizionali”;

- non è stata accolta l’eccezione di inammissibilità fondata sulla prospettata “incertezza e indeterminatezza del perimetro dell’azione di annullamento proposta”, poiché, al contrario, “dal tenore del ricorso si evince chiaramente la volontà di ottenere (quantomeno) l’annullamento di provvedimenti che, nella complessa scansione procedimentale, conseguono o sono precedenti (ma in rapporto di presupposizione) rispetto alle determinazioni regionali n. 2205 e n. 2218 del 2002, con le quali fu esclusa la necessità della VIA”, in relazione a taluni sub comparti;

- infondata è stata giudicata l’eccezione relativa alla presunta eterogeneità dei provvedimenti impugnati, laddove questa “è perfettamente fisiologica nella materia de qua, ove convergono valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, ambientale e paesaggistico . . . pur sempre convergenti verso un unico risultato finale, che è quello di consentire la realizzazione dell’intervento programmato”;

- è stata ritenuta infondata l’eccezione di inammissibilità relativa alla impossibilità di riferire le censure proposte ai singoli provvedimenti impugnati, salvo che in relazione a due provvedimenti regionali (deliberazione GR n. 40/2000, di approvazione dello studio di compatibilità paesistico ambientale) e determinazione regionale n. 1754/2001, di approvazione in via preliminare del piano di lottizzazione per il sub comparto E1/g;

- quanto all’eccepito il difetto di interesse in relazione alla impugnazione di tutti i provvedimenti provenienti dalla Regione Sardegna, poiché gli stessi, non producendo effetti sull’ambiente, sarebbero estranei ai profili di tutela affidati alle cure dell’associazione ricorrente, si è rilevato, in proposito, che la tutela ambientale deve essere intesa in senso lato, con possibilità di impugnare anche atti in materia urbanistica “ove si riconnettano specifici interessi ambientali . . . da tutelare anche in via strumentale e indiretta”;

- quanto alla eccepita tardività del ricorso, con pluralità di indicazione di profili ed argomentazioni a sostegno, si è ricordato – fermo l’onere della prova della tardività a carico della parte che eccepisce – che “la mera indicazione di un atto nel corpo di successivi provvedimenti oggetto di pubblicazione (non) comporta la prova della conoscenza legale anche del primo”.

Nel merito, la sentenza impugnata ha affermato:

- quanto agli atti relativi al Piano di lottizzazione del sub comparto E1/g (delibera CC di Teulada n. 11/2001, di approvazione definitiva del Piano di lottizzazione; determinazioni Ass. reg. difesa ambiente nn. 2205/2002 e 2218/2002, di esclusione della necessità di VIA per i comparti E1/e, E1/f, E1/g), le considerazioni con le quali la Regione ha escluso di procedere a VIA sono “assai scarne e senza, comunque, prendere in considerazione il problema dell’unitarietà o frammentazione della verifica in relazione ai singoli sub comparti”;

- in particolare, “l’area oggetto dell’intervento proposto dalla SITAS costituisce un contesto ambientale di enorme pregio, in relazione al quale dovranno essere adeguatamente valutati, sotto il profilo motivazionale ed istruttorio, gli atti (impugnati) in virtù dei quali le amministrazioni interessate hanno ritenuto compatibile un intervento di enormi dimensioni (139.000 cubi complessivi, richiamando la cifra indicata dalla stessa difesa del Comune di Teulada. . . ), capace di interessare - in virtù di cinque piani di lottizzazione formalmente distinti - sei dei nove sub comparti in cui il vigente P.U.C. articola l’intera loc. Capo Malfatano, mediante la realizzazione di insediamenti residenziali ed alberghieri posizionati a breve distanza dal mare”;

- a tal fine, “l’aver effettuato la cd. ‘verifica preliminare’ di compatibilità in modo parcellizzato di per sé configura un gravissimo travisamento dei fatti, tale da compromettere in radice l’accertamento degli effetti ultimi sull’ambiente di un intervento di enorme entità, operato in una zona da tempo sottoposta a vincolo paesaggistico”, mentre era evidente che “a prescindere dalla sua formale scomposizione in sub comparti, l’intervento proposto fosse sostanzialmente unitario”;

- “in tale contesto l’assenza di una valutazione complessiva ai fini della (sola) V.I.A. si pone in radicale contrasto con la sua ontologica finalità, che è quella di accertare gli effetti ultimi dell’intero intervento sull’ambiente, nonché di valutarne la compatibilità e/o di suggerire sistemi ‘di minor impatto’, senza esclusione della cd. ‘opzione zero’ ”;

- pertanto, “l'Amministrazione non poteva effettuare una valutazione “parcellizzata” di interventi connessi sotto il profilo soggettivo, territoriale ed ambientale, dovendo, invece, tener conto della loro reciproca interazione, il che trova conferma in numerosi pronunciati del Giudice comunitario, il quale ha inteso valorizzare l’efficacia della Direttiva sulla V.I.A. adottando un approccio sostanzialistico, che impone di individuare gli effetti complessivi dei programmati interventi sull’equilibrio ambientale del sito interessato”; essendo invece “indispensabile effettuare una valutazione concreta e complessiva di tutte le previste opere edilizie, al fine di evitare che una artificiosa segmentazione degli interventi in distinte e procrastinate progettazioni…possa compromettere l'efficacia concreta della Direttiva sulla VIA”.

2. Avverso la sentenza n. 91/2012, la SITAS ha proposto i seguenti motivi di appello:

a) errore e difetto di motivazione della sentenza; eccesso di potere per errore e difetto di presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti, ingiustizia manifesta e illogicità; ciò in quanto la sentenza “non risponde all’eccezione . . . in tema di incertezza e indeterminatezza del ricorso”, in quanto “il ricorso impugna in modo unitario atti emessi da autorità amministrative differenti, aventi oggetti diversi e facenti parte di sequenze procedimentali del tutto autonome, creando così un’incertezza non risolubile circa il perimetro dell’azione di annullamento proposta”. E ciò “ben al di là dei limiti all’interno dei quali si ritiene ammissibile la proposizione di un ricorso cumulativo”; né il giudice può indicare (come è invece avvenuto) gli atti impugnati avverso i quali devono intendersi rivolte le singole censure;

b) errore e difetto di motivazione della sentenza; violazione ed erronea applicazione di norme di legge; eccesso di potere giurisdizionale, con riguardo all’insufficiente accertamento dei presupposti; tardività del ricorso di I grado; poiché, in relazione alla delibera CC di Teulada n. 13/2010 (con la quale sono state approvate alcune rimodulazioni planoaltimetriche nel sub comparto E1/e – f), “non si ravvisa alcuna portata lesiva” della medesima, che “costituisce atto di avvio di procedure complesse che prevedono successivi atti di definizione di competenza dell’amministrazione regionale”. Ad ogni buon conto, ove lesiva, la delibera avrebbe dovuto essere impugnata nel termine di sessanta giorni dal termine di pubblicazione;

c) errore e difetto di motivazione della sentenza; eccesso di potere per errore e difetto di presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti; poiché – in relazione alla mancata impugnazione di alcuni atti (in specie, concessioni edilizie) – il giudice, affermando la persistenza dell’interesse, poiché l’eventuale annullamento di atti a monte “comporterebbe il blocco totale quanto meno dei fabbricati di natura residenziale e/o alberghiera”, dà luogo ad “un’inammissibile estensione degli atti assoggettati all’impugnazione ed all’annullamento”, ancorché non impugnati dalla ricorrente. In tal modo, si concretizza “una gravissima violazione del diritto di difesa”. In particolare: c1) con riguardo alla autorizzazione paesaggistica n. 15/2008, il giudice - ritenendola oggetto di impugnazione poiché, al fine di identificare gli atti impugnati, è “sufficiente un’effettiva volontà rinvenibile dal contenuto delle censure dedotte” - viola la tesi consolidata secondo la quale “devono ritenersi sottoposti al sindacato giurisdizionale tutti gli atti nei riguardi dei quali sono espressamente proposte specifiche censure”; c2) per quanto riguarda la mancata impugnazione di tutti i piani di lottizzazione, “il giudice non ne fa alcuna menzione nella sentenza, pur essendone a conoscenza, data l’accurata citazione nel fatto”;

d) errore e difetto di motivazione della sentenza; violazione ed erronea applicazione di norme di legge: artt. 41, co. 2, D.lgs. n. 104/2010, 21, co. 1 L. n. 1034/1971, 10 l. L. 1150/1942, 6 co. 9 L. n. 349/1986; eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti; ciò in quanto con il ricorso in I grado “si impugnavano atti e soprattutto deliberazioni regionali e comunali assai risalenti nel tempo”, di modo che è censurabile che “il TAR non consideri il ricorso, nella sua interezza, irricevibile per tardività”;

e) errore e difetto di motivazione della sentenza; violazione ed erronea applicazione art. 41, co. 2, D. lgs. n. 104/2010; eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti; ciò in quanto – con riferimento alle determinazioni regionali nn. 2205 e 2218 del 2002 (con le quali si era stabilito il non assoggettamento a VIA dei sub comparti E), F) e G), e la sottoposizione a VIA del sub comparto H) – la sentenza impugnata fa discendere dall’annullamento di tali atti “l’annullamento consequenziale di tutti gli altri atti” ad essi riferibili. A fronte di ciò: e1) il ricorso è tardivo perché proposto oltre il termine decadenziale decorrente dalla pubblicazione di detti atti nel Bollettino Regionale (sul punto, “questa circostanza è stata del tutto pretermessa nella sentenza”); e2) peraltro, i provvedimenti risultano più volte citati in atti successivi, di modo che occorre presumerne la conoscenza;

f) errore e difetto di motivazione; violazione ed erronea applicazione art. 41, co. 2, D. lgs. n. 104/2010; eccesso di potere per errore e difetto di presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti e sviamento; ciò in quanto si era fornita la prova della tardività dell’impugnazione della autorizzazione paesaggistica n. 13/2009, “producendo in giudizio una documentazione probante (e non contestata), che dimostrava lo stato di avanzamento e di pressoché completamento dei tre edifici oggetto di quella autorizzazione al 31 dicembre 2010, e dunque prima dei sessanta giorni dalla data di proposizione del ricorso”;

g) errore e difetto di motivazione della sentenza; violazione ed erronea applicazione art. 4 n. 2 Direttiva 85/337/CE, art. 2 L. n. 394/1991, art. 1, co. 6, DPR 12 aprile 1996; eccesso di potere per errore e difetto di presupposti, di istruttoria, travisamento dei fatti; ciò in quanto – ribadita l’inammissibilità del motivo accolto, per omessa indicazione della norma di legge violata – occorre osservare: g1) l’area turistica, inserita all’interno del Piano urbanistico comunale, è da questo suddivisa in cinque sub comparti, “anche in considerazione della loro non contiguità, appartenenza a versanti differenti, separazione fisica e orografica”, di modo che non era necessaria la sottoposizione a VIA dell’intero programma di intervento; g2) la suddivisione dei progetti da sottoporre a VIA assume rilievo solo se essa “ponga i singoli progetti al di sotto delle soglie dimensionali previste dalla normativa”, in tal modo divenendo artificiosa. Nel caso di specie, al contrario, “gli indici di valutazione unitaria sono da ritenersi errati visto che le parti di territorio non sono finitime, infatti i sub comparti sono posizionati in aree distanti 2,5 – 3 Km con discontinuità orografiche e territoriali, tali per cui sarebbe illogico procedere ad una valutazione unica. Inoltre gli stessi non sono funzionalmente connessi, in quanto alcuni hanno destinazione alberghiera ed altri residenziale”. Né la sottoposizione a VIA è legittimata dall’essere le aree di unica proprietà; g3) la tipologia di intervento è riconducibile al punto 8, lett. a), All. b) DPR 12 aprile 1996, e gli interventi di cui all’All. b) sono da sottoporre necessariamente a VIA, ai sensi dell’art. 1, co. 4, DPR cit., se “ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394”; ebbene “nessuna di queste aree naturali protette è presente nella zona interessata dagli interventi SITAS”; g4) quanto alla possibilità di sottoporre gli interventi a VIA, ai sensi dell’art. 1, co. 6, DPR 12 aprile 1996 [esclusa per i sub comparti E), F) e G), ed affermata per il sub comparto H)], mentre “non è quindi corretto sostenere che il giudizio di assoggettabilità abbia escluso completamente la VIA”, allo stesso tempo la decisione assunta in sede di verifica, frutto di esercizio di discrezionalità tecnica, “è comunque assistita da congrua motivazione”, in quanto quest’ultima va rapportata “a quanto richiesto ad una procedura che, per scelta legislativa, poteva validamente concludersi in senso positivo con un pronunciamento tacito”.

3. Ha proposto appello incidentale il Comune di Teulada, proponendo i seguenti motivi di impugnazione (come desunti dalle pagg. 6 – 31 ricorso):

h) error in iudicando, poiché il ricorso risulta affetto da tardività, in quanto rivolto avverso provvedimenti “tutti adottati e sottoposti alle previste forme di pubblicazione quanto meno oltre un anno prima della loro impugnazione”;

i) error in iudicando, poiché la domanda di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 “appariva affetta da evidente carenza di interesse, non rinvenendosi alcuna utilità per l’associazione ambientalista ad ottenere la caducazione di un atto autorizzatorio che ,. . . non aveva indotto aggravi ambientali in relazione ad un intervento edilizio già interamente programmato, autorizzato ed ampiamente realizzato”;

l) error in iudicando, poiché il termine di impugnazione, in particolare delle delibere del Comune di Teulada, “trattandosi di atti amministrativi generali., non destinati ad incidere direttamente nella sfera giuridica dell’amministrazione ricorrente”, non poteva che decorrere “dalla avvenuta pubblicazione degli atti stessi nelle forme legalmente previste”;

m) error in iudicando, poiché le determinazioni regionali nn. 2205 e 2218 del 2002, andavano impugnate entro il termine decadenziale decorrente dalla loro pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione. Occorre osservare che “la materia dell’ambiente – di certo peculiare per rilevanza dell’interesse tutelato e per la conseguente disciplina sostanziale – non è però oggetto di alcun trattamento speciale, differenziato o derogatorio, quanto ai termini di attivazione degli strumenti di tutela processuale dei diritti e degli interessi ambientali” (pag. 9 app.); né un regime particolare deriva dalla “configurazione dei diritti di informazione ambientale” ovvero dalla Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, ratificata con legge n. 108/2001, citata in sentenza (pagg. 10 – 20 app.);

n) error in iudicando, poiché la pronuncia appellata è “viziata per violazione dei limiti di sindacato estrinseco, a cui è soggetta la giurisdizione amministrativa di annullamento”; ciò in quanto “l’unicità della proprietà terriera è del tutto irrilevante a fini di valutazione dell’impatto ambientale di un intervento, mentre è di grande importanza nel consentire la trattazione unitaria di talune fasi procedimentali . . . così come allo scopo di riuscire a perfezionare atti di compensazione volumetrica da un piano all’altro”; né rileva il richiamo effettuato dalla sentenza ad una “asserita unicità dell’intervento”, posto che, se i cinque piani di lottizzazione afferiscono tutti all’area geografica di Capo Malfatano, tuttavia “trattasi di un ambito territoriale assai vasto, ampio varie migliaia di ettari, in cui quei piani sono localizzati a notevole distanza l’uno dall’altro”. Infine risulta “apodittica e infondata anche l’affermazione che si tratterebbe di interventi funzionalmente connessi, accomunati da impianti ed opere di urbanizzazione comuni e fra loro interconnessi”, posto che si tratta di piani di lottizzazione autonomi, approvabili e realizzabili singolarmente e privi di un rapporto di interdipendenza funzionale” (v. pagg. 22-23 app.). Al contrario di quanto esposto, “i primi giudici pervengono a sovrapporre il proprio giudizio di merito a quello assunto dalle competenti amministrazioni nell’esercizio delle loro prerogative di discrezionalità tecnica”, senza tener conto del fatto che sulla questione di sottoporre o meno i piani di lottizzazione presentati da SITAS ad una unica valutazione di impatto ambientale, si era già pronunciata negativamente la Direzione generale ambiente della Commissione europea;

o) error in iudicando, poiché “il disposto annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 non poteva essere fatto conseguire, ex se, all’annullamento delle determinazioni” nn. 2205 e 2218 del 2002, e ciò in quanto – stante la disposizione transitoria di cui all’art. 35, co. 2 ter, D. lgs. n. 152/2006 – le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo stesso “sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento”, di modo che “gli effetti prodotti dalle sorti di tali valutazioni sui relativi atti consequenziali debbano essere valutati alla luce della medesima normativa”. Da ciò consegue che la relativa censura proposta in I grado, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per difetto di interesse;

p) error in iudicando, poiché la sentenza ha disposto l’annullamento di un atto (l’autorizzazione paesaggistica n. 15/2008) non impugnato con il ricorso in I grado. La sentenza ha ritenuto tale atto (implicitamente) impugnato, poiché, “essendo evidente l’intento dell’associazione ambientalista di perseguire la cd. opzione zero (ossia, impedire in radice l’intero complesso di interventi) – ne dovrebbe discendere che la stessa abbia inteso ottenere la caducazione di tutti gli atti che si frappongono al raggiungimento di tale risultato”. Al contrario di ciò, proprio il fatto che l’associazione, pur impugnando la citata autorizzazione paesaggistica, non ne ha censurato i profili per i quali il TAR ne ha sancito l’illegittimità, comporta che l’intervento del I giudice costituisce una “grave e indebita violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato”.

4. Anche l’associazione “Italia nostra Onlus” ha proposto appello incidentale, proponendo i seguenti motivi (per come desunti dalle pagg. 13 – 26 app.):

q) error in iudicando, omessa pronuncia, erroneità e travisamento dei fatti, poiché la sentenza, mentre include tra gli atti impugnati l’autorizzazione paesaggistica 20 ottobre 2008 n. 15, non espressamente citata nell’epigrafe del ricorso in I grado, pronunciandone l’annullamento, non giunge alle stesse conclusioni “con riferimento alle autorizzazioni nn. 11 e 13, che si collocano nella stessa fase procedimentale dell’autorizzazione n. 15/2008, ma nell’ambito degli altri due sub comparti, E1/e ed E1/f, anch’essi oggetto di gravame”. Di modo che “o tali provvedimenti devono ritenersi travolti dall’annullamento dei provvedimenti che hanno negato la VIA, perché ad essi successivi . . . oppure la sentenza è errata per non avere incluso tali atti tra quelli oggetto di gravame e per non averne pronunciato espressamente la caducazione”;

r) error in iudicando, in relazione alla pronunciata inammissibilità del ricorso contro i provvedimenti della Regione Sardegna n. 40/40 del 12 ottobre 2000 e n. 1754 del 1 marzo 2001; violazione ed errata applicazione artt. 134, 136, 145, co. 3, Codice beni culturali; violazione ed errata applicazione artt. 14, co. 2, 15, co. 1, 20, co. 2 e 3, NTA del PPR; omessa pronuncia su un motivo di ricorso; errore e travisamento dei fatti; ciò in quanto – poiché i due atti citati attengono, rispettivamente, all’approvazione dello studio di compatibilità paesaggistico–ambientale predisposto da SITAS ed allegato ai piani di lottizzazione, nonché all’autorizzazione degli interventi previsti nel sub comparti E1/g sul presupposto della loro compatibilità paesaggistica, sono ad essi riferibili le censure con le quali l’associazione “contesta la conformità paesaggistica dell’opera per l’asserita violazione delle norme regionali e nazionali”, nonché “le censure concernenti la conformità urbanistica dell’intervento e le procedure di affidamento”;

s) error in iudicando; violazione e falsa applicazione artt. 134, 136, 143, 145, co. 3, Codice beni culturali; violazione ed errata applicazione artt. 14, co. 2, 15, co. 1, 20, co. 2 e 3, NTA del PPR; erroneità ed eccesso di potere per sviamento; ciò in quanto non può essere dichiarata inammissibile l’impugnazione delle citate NTA (in particolare, art. 15, co. 3), per sopravvenuto difetto di interesse (in quanto tale articolo sarebbe confluito nell’art. 13, co. 1, lett. c) l. reg. n. 4/2009), sia perché “lesiva del principio di irretroattività della legge”, sia perché il citato art. 13, co. 1, l. reg. n. 4/2009 “non consente una liberalizzazione immediata degli interventi sulla fascia costiera”, poiché “ai fini della sua applicazione tutti gli interventi da essa previsti devono essere recepiti nel PPR”, con la conseguenza che – non essendo stati recepiti gli interventi – continua a trovare applicazione l’art. 15, co. 3 NTA, con conseguente persistenza dell’interesse ad agire contro il medesimo;

t) error in iudicando, violazione e falsa applicazione artt. 20, co. 6 e 21 L. reg. Sardegna n. 45/1989; art. 16 L. n. 1150/1942; artt. 143 e 146, co. 6, D. lgs. n. 42/2004; art. 4 L. reg. n. 26/1998; artt. 7 e 14 della Direttiva n. 1, delib. GR 15 ottobre 1998 n. 45/7 art. 143, poiché sussiste l’interesse all’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 per vizi propri (v. pagg. 21 – 22 app), poiché “sarebbe impossibile ritenere che la realizzazione di nuovi fabbricati, come ad esempio una centrale termica o un fabbricato-albergo, in una zona di così elevato pregio quale quella di Capo Malfatano, non abbia alcuna ripercussione sull’habitat circostante”;

u) error in iudicando; omessa pronuncia su un motivo di ricorso; violazione e falsa applicazione art. 12 L. n. 1497/1939 e artt. 16 e 28 L. n. 1150/1942; poiché vi è stato mancato controllo della Soprintendenza, in particolare sull’atto di autorizzazione paesaggistica regionale del Piano;

v) error in iudicando, violazione ed errata applicazione art. 28 l. n. 1150/1942; carenza di potere; difetto dei presupposti; in relazione alla impugnazione della convenzione 27 febbraio 2002 tra SITAS e Comune di Teulada ed all’atto di proroga della medesima stipulato il 3 maggio 2007;

z) error in iudicando; violazione e falsa applicazione dei principi comunitari e nazionali in materia di realizzazione di opere pubbliche, sub specie di opere di urbanizzazione primaria e secondaria affidate direttamente alla SITAS, ora recepite nelle disposizioni contenute nell’art. 32, lett. g) D. lgs. n. 163/2006, poiché sussiste l’interesse dell’associazione alla censura, dato che “la disciplina sull’evidenza pubblica non è diretta esclusivamente alla tutela della concorrenza, ma anche alla tutela dei bisogni emergenti della collettività pubblica, primo fra tutti la difesa dell’ambiente.

5. Si è costituita in giudizio la Regione Sardegna, che ha concluso richiedendo la riforma della sentenza impugnata, nelle parti in cui essa accoglie il ricorso di Italia Nostra Onlus.

Si è altresì costituito in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali.

Dopo il deposito di ulteriori memorie e repliche (con le quali le parti hanno ciascuna di esse insistito per l’accoglimento del proprio ricorso in appello, e per il rigetto dell’appello avversario, con l’eccezione dell’appello SITAS, del quale il Comune di Teulada non richiede il rigetto), all’udienza di trattazione la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

6. Gli appelli della SITAS e del Comune di Teulada sono volti alla integrale riforma della sentenza impugnata, con la conseguente declaratoria di inammissibilità, ovvero, in via subordinata, con il conseguente rigetto del ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

A tal fine, ambedue i ricorsi in appello:

- per un verso, ripropongono, per il tramite di specifici motivi di gravame, una pluralità di eccezioni di inammissibilità del ricorso proposto in I grado da Italia Nostra;

- per altro verso, propongono motivi volti a censurare, nel merito, le statuizioni della sentenza impugnata, la quale ha, in sostanza, riconosciuto l’illegittimità di una pluralità di atti tutti relativi alla lottizzazione di Capo Malfatano, dovuta ad una illegittima determinazione di non sottoposizione a VIA di taluni dei piani di lottizzazione dei sub comparti interessati.

Quanto ai motivi volti a riproporre le censure di inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado, occorre osservare che:

- alcuni di essi censurano la “incertezza e indeterminatezza del ricorso”, che sarebbe stato proposto ben al di là dei limiti propri di un ricorso cumulativo; in tale ambito si iscrive il motivo sub a) dell’appello SITAS;

- alcuni altri censurano, in sostanza (e, per così dire, a “completamento speculare” dei precedenti), la violazione da parte del giudice del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e tali sono i motivi sub c) in parte, dell’appello SITAS e sub p) dell’appello Comune;

- alcuni censurano la tardività del ricorso; in tal senso si collocano i motivi sub b) in parte, d), e) ed f) dell’appello SITAS; nonché i motivi sub h), l) ed m) dell’appello Comune;

- altri motivi ancora censurano il difetto di interesse, stante la mancanza di lesività degli atti impugnati. Di tale natura sono i motivi sub b) in parte, e sub c) in parte dell’appello SITAS, nonché i motivi sub i) ed o) dell’appello Comune.

Alle questioni di merito (relative, cioè, alla necessità o meno di attivazione della procedura di VIA), sono dedicati il motivo sub g) dell’appello SITAS, ed il motivo sub n) dell’appello Comune.

A fronte degli appelli SITAS e Comune di Teulada, l’appello dell’associazione Italia Nostra Onlus è proposto per la parziale riforma della sentenza impugnata, nelle parti in cui la stessa dichiara inammissibili (o non pronuncia su) specifici motivi proposti con il ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

Occorre, infine, precisare che l’appello proposto dal Comune di Teulada si presenta quale appello incidentale cd. improprio (ai sensi degli artt. 96, co. 3 Cpa e 333 c.p.c.), mentre l’appello proposto dall’associazione Italia Nostra – verificato alla luce dei motivi di impugnazione proposti – si presenta quale appello incidentale improprio in relazione al primo motivo proposto (sub q) dell’esposizione in fatto), mentre ha natura di appello incidentale proprio (ex art. 96, co. 4 Cpa e 334 c.p.c.), in relazione a tutti gli altri motivi.

7. L’esame dei motivi di appello, con i quali si propongono “questioni di rito” afferenti da un lato alla inammissibilità/irricevibilità del ricorso della Associazione Italia Nostra, dall’altro ad un preteso “sconfinamento” del giudice rispetto al thema decidendum (come si assume essere stato definito con i motivi di doglianza proposti in relazione ad atti effettivamente ed espressamente impugnati), richiede una verifica preliminare dell’esatta posizione giuridica attribuita dall’ordinamento alle associazioni (nel caso di specie, associazioni cd. “ambientaliste”) e, più in particolare, la effettiva natura di tale “parte” nel processo amministrativo.

E ciò nella consapevolezza di una situazione affatto particolare, a fronte della quale le condizioni dell’azione (legittimazione ed interesse ad agire), la esperibilità di mezzi di tutela (ad esempio, il ricorso cumulativo), lo stesso verificarsi della “piena conoscenza” di atti – al fine di individuare il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale - assumono una valenza giuridica diversa. Una valenza che, proprio in virtù del ruolo riconosciuto alle associazioni (e della necessità di verificare possibilità e contorni della titolarità in capo ad esse di situazioni soggettive), non consente di poter automaticamente replicare schemi ricostruttivi (in particolare) della legittimazione e dell’interesse ad agire, usualmente definiti con riguardo al titolare di posizioni di interesse legittimo.

La Costituzione, come è noto, sancisce, all’art. 24, il diritto alla tutela giurisdizionale per le posizioni di diritto soggettivo ed interesse legittimo, assicurando ad entrambe le posizioni la tutela giurisdizionale “piena” avverso gli atti della Pubblica Amministrazione (non limitata per mezzi di impugnazione e categorie di atti: art. 113).

Tale affermazione, di pur ampia portata, resta tuttavia legata, nel suo dato letterale, alla elaborazione dogmatica presente al momento di redazione del testo della Costituzione, essendosi preferito – come emerge dal dibattito in Assemblea Costituente – il riferimento ad “interessi legittimi”, in luogo del pur proposto “interessi giuridicamente protetti”. E ciò nella convinzione, per un verso, che – secondo i Costituenti - un interesse giuridicamente protetto è sempre un interesse legittimo; per altro verso che sarebbe stato opportuno affidare alla giurisprudenza “la concretizzazione di quello che suole chiamarsi interesse legittimo”, adeguando la figura (e la connessa esigenza di tutela) all’evolversi del contesto storico–sociale, come recepito dalla elaborazione giurisprudenziale.

Tanto premesso, occorre osservare come successivamente si sia delineato:

- per un verso, un ampliamento della posizione “a titolarità individuale” di interesse legittimo, attraverso una più adeguata ed ampia definizione del suo contenuto (interesse oppositivo/pretensivo) e degli strumenti di tutela ad essa offerti (azione di condanna della P.A. al risarcimento del danno: Cons. Stato, sez. IV, 3 agosto 2011 n. 4644; 7 marzo 2013 n. 1403);

- per altro verso, un “affiancamento” della posizione “individuale” di interesse legittimo, ottenuta per il tramite di una migliore ricognizione di interessi definiti quali “collettivi” o “diffusi”.

Quanto alla tutela offerta ad interessi “non individuali”, nella convinzione della impossibilità di tutelare gli stessi solo nel caso di occasionale coincidenza con un interesse legittimo del singolo (in tal modo subordinando, peraltro, detta tutela anche alla persistente volontà di coltivare il ricorso da parte di questi), si è delineata:

- sia un migliore e più ampio perimetro della legittimazione attiva degli enti esponenziali;

- sia la attribuzione ex lege di legittimazione attiva (speciale) ad associazioni aventi scopi di tutela di particolari e delicati valori, costituzionalmente garantiti (quali l’ambiente, la concorrenza);

- sia la attribuzione di legittimazione - e quindi una sostituzione processuale normativamente consentita in deroga all’art. 81, c.p.c. - a singoli cittadini, come nel caso degli elettori che possono “far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia”, ex art. 9, d. lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2011 n. 4130).

Quanto agli enti, occorre innanzi tutto osservare (Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013 n. 5451), che ad un soggetto dell’ordinamento è attribuita la qualifica di ente esponenziale di collettività (cd. ente collettivo), in ragione di una possibilità di individuazione di tali collettività, attraverso l’appartenenza – giuridicamente definita e persistente nel tempo - di coloro che le compongono a un medesimo territorio, ovvero ad una medesima categoria produttiva.

Tali enti possono essere sia riconosciuti come tali dall’ordinamento giuridico (gli enti territoriali trovano il proprio riconoscimento negli articoli 5 e 114 Cost.; le organizzazioni sindacali nell’art. 39 Cost.), sia manifestarsi per effetto della libertà di associazione, espressamente riconosciuta dall’ordinamento (art. 18 Cost.).

In quest’ultimo caso, tuttavia, perché la loro costituzione possa renderli titolari di interessi collettivi, occorre che i singoli associati si caratterizzino non già per essere una aggregazione meramente seriale ed occasionale, ma per essere identificabili in relazione ad un vincolo che, in quanto afferente ad una realtà territoriale o ad una medesima manifestazione non occasionale della vita di relazione, si presenti come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua durata).

Gli enti collettivi – oltre ad avere caratteristiche diverse quanto alla personalità giuridica – possono quindi essere titolari sia (al pari dei soggetti singoli) di posizioni giuridiche proprie (diritti soggettivi ed interessi legittimi), sia di posizioni giuridiche “collettive” (appunto, interessi collettivi).

In questa seconda ipotesi, si è affermato (Cons. Stato, comm. spec., parere 26 giugno 2013 n. 3014), che:

“in capo all’ente esponenziale l’interesse diffuso, se omogeneo, in quanto comune (ai) rappresentati, si soggettivizza, divenendo interesse legittimo, nella forma del c.d. “interesse collettivo”, fermo restando che “l’interesse diffuso (che attraverso l’ente esponenziale diviene interesse collettivo e quindi interesse legittimo) è, per sua natura, indifferenziato, omogeneo, seriale, comune a tutti gli appartenenti alla categoria”.

In tale contesto, si è affermato che “l’ente esponenziale è lo ‘strumento’ elaborato dalla giurisprudenza per consentire la giustiziabilità dei c.d. ‘interessi diffusi”’ cioè degli interessi omogenei e indifferenziati degli appartenenti alla categoria. È attraverso la costituzione dell’ente esponenziale che l’interesse diffuso, sino a quel momento adespota e indifferenziato, si soggettivizza e si differenzia, assurgendo al rango di interesse legittimo meritevole di tutela giurisdizionale”.

Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di precisare (sez. IV, n. 5451/2013 cit.) che gli “interessi collettivi”, in quanto afferenti ad enti territoriali, o ad associazioni, quali le organizzazioni sindacali, non sono esclusivamente gli interessi “comuni a tutti gli appartenenti alla categoria”.

Ed infatti se per interesse collettivo si intende – come sopra riportato - l’interesse diffuso comune a tutti i soggetti facenti parte della collettività (e dall’ente rappresentati) – interesse diffuso che, proprio perché comune, si “soggettivizza” – ne consegue: sia che tale interesse non costituisce (né può mai costituire) posizione soggettiva dei singoli, ma esso sorge quale posizione sostanziale direttamente e solo in capo all’ente esponenziale; sia che esso, soggettivizzandosi in capo all’ente esponenziale, costituisce posizione propria (e solo) di questo. Esso è una “derivazione” dell’interesse diffuso per sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela” di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività.

Tale considerazione contribuisce a porre meglio in luce una non secondaria differenza tra interessi collettivi ed interessi diffusi (costituendo, come si è detto, i primi una “derivazione” dei secondi). Ed infatti:

- mentre la definizione di “interresse collettivo” può essere proficuamente utilizzata per definire la posizione giuridica “propria” di un ente che vede la partecipazione (necessitata o volontaria) di singoli non costituenti una aggregazione meramente seriale ed occasionale, ma identificabili in relazione ad un vincolo che, in quanto afferente ad una realtà territoriale o ad una medesima manifestazione non occasionale della vita di relazione, si presenti come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua durata);

- al contrario, la definizione di interessi diffusi denota interessi latenti nell’ordinamento, che si presentano adespoti, indifferenziati, ontologicamente omogenei, e la cui “selezione” (individuazione e conseguente attribuzione di tutela) deriva dal riconoscimento e tutela, costituzionalmente garantita, di valori imprescindibili della “forma di Stato”.

In tal senso, per un verso l’ordinamento giuridico – innanzi tutto a livello costituzionale - seleziona valori ai quali assicura tutela ampia (ad esempio, ambiente, paesaggio, salute: artt. 9, 32 Cost.); per altro verso, non solo riconosce il diritto di associazione (art. 18 Cost.), ma indica ora alle organizzazioni territoriali che compongono la Repubblica anche il compito di “favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini”, e ciò al fine costituzionalmente dichiarato di utilizzare le associazioni così formatesi “per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, ult. co. Cost.).

La selezione dei valori, dunque, non determina solo la cura di interessi pubblici affidati a Pubbliche Amministrazioni (ad esempio, allo Stato la tutela dell’ “ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”: art. 117, co. 2, lett. s), Cost.), ma individua “beni o valori comuni”, la cui gestione e tutela ben può essere affidata alla cura di organizzazioni di cittadini, debitamente costituite e riconosciute (ove previsto) in relazione ai poteri che l’ordinamento intende loro conferire.

La libertà di associazione, dunque, se costituisce la prima delle garanzie dei diritti inviolabili dell’uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, formazioni sociali entro le quali le associazioni si iscrivono (art. 2 Cost.), e come tale non può essere limitata se non nei casi previsti dall’art. 18 Cost., presenta ora, per così dire, un “versante attivo”, poiché essa si concretizza oggi nella costituzione di soggetti che partecipano attivamente alle “attività di interesse generale” (pur affidate – come è ovvio - primariamente a pubbliche amministrazioni), e dunque alla tutela di valori (cui corrispondono altrettanti interessi pubblici) costituzionalmente garantiti.

E’ in questo quadro costituzionalmente definito che devono, dunque, essere oggi letti ed interpretati, ad esempio:

- l’art. 310 d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che attribuisce ai soggetti (“organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente”, di cui all’art. 13 l. n. 349/1986), la legittimazione “ad agire, secondo i principi generali, per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta” del decreto medesimo, cioè in materia di danno ambientale e, dunque, di tutela dell’ambiente;

- l’art. 139 d. lgs. 6 settembre 2005 n. 206, che attribuisce alle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’art. 137, in particolare la legittimazione “ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti”.

L’associazione costituita e riconosciuta, che preveda statutariamente la cura di valori costituzionalmente garantiti (che proprio il predetto riconoscimento attesta essere presenti e collegabili al nuovo ente), non costituisce, dunque, solo una libera aggregazione di cittadini “avvertiti” o “sensibili”, che esprimono un interesse culturale o che comunque individuano forme di esplicazione della propria personalità. Né essa costituisce un ente attributario (in via esclusiva o insieme ad altri) di posizioni giuridiche proprie (come nel caso della titolarità di interessi collettivi), il che peraltro costituirebbe un controsenso, trattandosi di campi di azione riferibili a materie afferenti ad aspetti e valori costituzionalmente garantiti.

Tale associazione, invece, partecipa ad “attività di interesse generale”, nelle forme e limiti previsti dall’ordinamento, per espresso riconoscimento costituzionale. E tale “partecipazione” ben può comprendere (così come positivamente comprende) la tutela di “interessi generali” o “diffusi”; interessi questi ultimi che trovano oggi proprio nell’art. 118, ult. co., Cost, la propria “emersione”.

E ciò non perché tali interessi si sostanzino in posizioni soggettive delle quali è ad essa associazione attribuita la titolarità, bensì perché tale tutela rientra nei compiti che la legge ben può attribuire loro (come avviene nei riguardi di Pubbliche Amministrazioni), senza che ciò debba necessariamente richiedere una “conversione” (o se si vuole “riduzione”) dell’interesse in singola posizione sostanziale (“personale” e “diretta”).

La differenza tra interessi collettivi ed interessi diffusi, come sin qui descritta, si riflette anche, sul piano processuale. Ed infatti:

- mentre la legittimazione attiva delle associazioni titolari di interessi collettivi non abbisogna di un espresso e speciale riconoscimento normativo, e si riferisce alla titolarità di posizioni sostanziali nella sua proiezione processuale (l’ente esponenziale infatti – oltre ad essere titolare di posizioni giuridiche proprie quale persona giuridica, non diversamente dai singoli soggetti dell’ordinamento, persone fisiche e giuridiche – risulta altresì titolare sia di posizioni giuridiche che appartengono anche a ciascun componente della collettività da esso rappresentata, tutelabili dunque sia dall’ente sia da ciascun singolo componente - ed in questo senso l’interesse collettivo assume connotazioni proprie di interesse “superindividuale”- ; sia posizioni giuridiche di cui è titolare in via esclusiva, cioè interessi collettivi propriamente detti, la cui titolarità è solo dell’ente, proprio perché risultanti da un processo di soggettivizzazione dell’interesse altrimenti diffuso ed adespota);

- viceversa, la legittimazione attiva delle associazioni che svolgono attività afferenti ad “interessi generali” (art. 118 Cost.) o “diffusi”, discende dal riconoscimento normativamente previsto e da una attribuzione ex lege, che rende tale legittimazione “speciale”, in quanto attribuita in deroga all’art. 81 c.p.c..

Solo nel quadro complessivo così come delineato, possono essere contestualmente condivise:

- sia l’affermazione della giurisprudenza che circoscrive la legittimazione processuale speciale alle sole associazioni riconosciute (Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2011 n. 3662), in quanto legittimazione afferente a tutela di interessi “generali” o “diffusi”, nei sensi sopra precisati;

- sia la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010 n. 6554; sez. VI, 23 maggio 2011 n. 3107; sez. III, 8 agosto 2012 n. 4532) che riconosce la legittimazione attiva anche a “comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti” su un territorio circoscritto”, oppure di “sodalizi che, pur se articolati, o non possiedono strutture locali, o s’incentrino in forma non occasionale su dati settori di mercato o per argomenti o esigenze consumistiche stabili, e via di seguito”, purchè “perseguano nel loro oggetto statutario ed in modo non occasionale obiettivi di tutela” delle predette esigenze.

In questo secondo caso, a ben osservare, ciò che sostanzia la posizione di chi – associazione o singolo individuo – agisce in giudizio per la tutela del bene ambiente, è la titolarità di un interesse collettivo (in questo caso, come “interesse di tutti” gli aderenti, e dunque come mera somma di interessi legittimi), ovvero un singolo interesse legittimo. Ed il criterio della “vicinitas”, talora utilizzato per individuare la “differenziazione delle posizioni azionate” e “radicare la legittimazione dei singoli per la tutela del bene ambiente” (così Cons. Stato, sez. VI, n. 6554/2010 cit.), risulta rispondente non già alla definizione della legittimazione attiva (che deriva da una posizione sostanziale in altro modo individuata), quanto più propriamente dell’interesse ad agire.

8. La definizione sin qui effettuata del ruolo delle associazioni, in quanto partecipanti alle “attività di interesse generale”, e dunque alla tutela, anche in giudizio, di interessi generali o diffusi, nei sensi innanzi precisati, comporta, a tutta evidenza, una diversa considerazione delle condizioni dell’azione.

Si è detto che la legittimazione attiva, lungi dal conseguire dalla titolarità di una posizione sostanziale, si collega, per espressa attribuzione legislativa, alla tutela di interessi diffusi, e costituisce deroga all’art. 81 c.p.c..

Ma se il fondamento dell’attribuzione di legittimazione speciale deve essere individuato nella “materia” in ordine alla quale l’associazione esplica la propria attività (e in ordine alla quale ha ottenuto lo speciale riconoscimento), in attuazione dell’art. 118 Cost., appare allora evidente come sia, per così dire, più “ampio” l’ambito di tale legittimazione, non collegandosi essa alla “angusta” titolarità di una posizione soggettiva, bensì ad una materia e ad un valore costituzionalmente garantito.

Nel caso oggetto della presente controversia, afferente alla materia dell’ambiente, l’oggetto della tutela, come affermato dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, n. 6554/2010 cit.), “lungi dal costituire un autonomo settore di intervento dei pubblici poteri, assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore dei diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano” (paesaggio, acqua, aria, suolo); esso è “un bene pubblico che non è suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario, multiforme”.

A fronte di tale definizione, la giurisprudenza di questa sezione (sent. 10 maggio 2012 n. 2710), nel definire in senso giuridico l’urbanistica, ha precisato:

“ il potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.. . . . In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.

Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione ‘de futuro’ sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora , attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.

In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.

L’ambiente, dunque, costituisce inevitabilmente l’oggetto (anche) dell’esercizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l’esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tener conto del “valore ambiente”, al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi.

Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l’ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia ‘ambiente’, in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni.

Tale maggiore ampiezza di legittimazione attiva determina, inevitabilmente, anche una diversa considerazione dell’interesse ad agire, che deve essere riguardato non già con riferimento alla singola posizione giuridica soggettiva per la quale si postula tutela in giudizio, bensì al “ bene o valore comune”, alla tutela del quale occorre parametrare la “utilità” della pronuncia del giudice.

In tal modo, anche l’attualità dell’interesse, che attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio onde ottenere tutela, e quindi “utile”, a tali fini, la pronuncia del giudice (Cons. Stato, sez. IV, n. 4644/2011 cit.), anche tale attualità deve essere verificata non già in relazione al pregiudizio del singolo interesse legittimo, quanto in relazione alla emersione della compromissione del “bene o valore comune” oggetto di tutela.

Di modo che, sia in generale, sia nel caso dell’ambiente, mentre l’adozione di un singolo atto può non concretizzare (o meglio, non concretizzare ancora) di per sé una lesione del bene “ambiente”, tale lesione emerge, e come tale può essere percepita:

- tanto in momenti anteriori a quando sorgerebbe l’interesse ad agire del singolo (si pensi ad un regolamento, che ben può ledere ex se interessi collettivi e/o diffusi, e non ancora singoli interessi legittimi, invece colpiti dall’atto che di esso fa applicazione: Cons. Stato, sez. IV, n. 5451/2013 cit.);

- quanto in momenti successivi, posto che la lesione del bene ambiente, non percepibile a livello di singolo atto adottato, emerge dal collegamento procedimentale e, soprattutto, funzionale di una pluralità di atti, complessivamente partecipi di un intervento che si propone come lesivo di quel bene.

In coerenza con quanto sin qui esposto – e ferme le considerazioni che saranno più specificamente esposte di seguito –, la “ampiezza” dell’interesse tutelato comporta l’utilizzazione di categorie, se non diverse, certamente più ampie in modo corrispondente, al fine di individuare i limiti di utilizzabilità del ricorso cumulativo.

9. Tanto premesso, i motivi con i quali si ripropone la doglianza di inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado, censurandone la “incertezza e indeterminatezza” (con l’affermare che lo stesso risulterebbe proposto ben al di là dei limiti propri del ricorso cumulativo), ed inoltre i motivi con i quali si censura (specularmente) la violazione da parte del I giudice del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

Più in particolare:

- il motivo sub a) dell’appello SITAS censura, in via generale il difetto di certezza e determinatezza del ricorso, affermandosi che lo stesso “impugna in modo unitario atti emessi da autorità amministrative differenti, aventi oggetti diversi e facenti parte di sequenze procedimentali del tutto autonome, creando così un’incertezza non risolubile circa il perimetro dell’azione di annullamento proposta”; e ciò “ben al di là dei limiti all’interno dei quali si ritiene ammissibile la proposizione di un ricorso cumulativo”;

- a fronte di ciò, sia il motivo sub c) – in parte - dell’appello SITAS, sia il motivo sub p) dell’appello Comune censurano il difetto di impugnazione da parte di Italia Nostra della autorizzazione paesaggistica n. 15/2008 e – in particolare la SITAS – anche dei piani di lottizzazione.

Sul punto, la sentenza appellata (in particolare pagg. 23 – 24 e 36 – 39) ha affermato:

- quanto alla “eccessiva eterogeneità dei provvedimenti impugnati”, che l’assunto non può condividersi, posto che la detta eterogeneità “è perfettamente fisiologica nella materia de qua, ove convergono valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, ambientale e paesaggistico, formalmente distinte e come tali attribuite alle cure di enti diversi, ma pur sempre convergenti verso un unico risultato finale, che è quello di consentire la realizzazione dell’intervento programmato, per cui la denunciata cumulatività del ricorso è perfettamente conforme alla situazione giuridica e di fatto che la ricorrente intende rimuovere”;

- quanto al rilevato difetto di impugnazione:

- per un verso, che “l’individuazione degli atti impugnati deve essere operata (non già con formalistico riferimento alla sola epigrafe, bensì) in relazione alla effettiva volontà del ricorrente quale desumibile dal tenore complessivo del gravame e dal contenuto delle censure dedotte”;

- per altro verso, che il motivo (più generale), riferito alla “indebita parcellizzazione della verifica preliminare finalizzata ad escludere la necessità della VIA è stato dedotto al chiaro (ed espressamente dichiarato) fine di ottenere la caducazione, in via derivata, dell’intera sequenza procedimentale, per cui lo stesso è tendenzialmente estensibile agli atti conseguenti”.

Il Collegio ritiene che, nel presente giudizio, in considerazione della res controversa - caratterizzata da estrema complessità di procedimenti e provvedimenti, tuttavia tutti teleologicamente orientati al risultato di disciplina del territorio del Comune di Teulada (e, nel caso di specie, di una parte di esso, la località Capo Malfatano) – non si evidenzino né incertezza ed indeterminatezza degli atti impugnati, né una sorta di “supplenza” del giudice, che (si sostiene) avrebbe – in ciò violando il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – sia individuato egli stesso, in taluni casi, gli atti oggetto di impugnazione e/o “esteso” la pronuncia di annullamento ad atti non impugnati, sia riferito specifici motivi di ricorso ad atti cui gli stessi, nella prospettazione del ricorrente, non sembravano riferirsi.

Orbene – fermo quanto precisato dalla sentenza impugnata sui singoli aspetti evidenziati, con considerazioni condivise nella presente sede – occorre ricordare, in linea generale, il principio di conservazione ed effettività degli atti giuridici che, nel caso di specie, costituisce affermazione del diritto alla tutela giurisdizionale, espressamente sancito, in termini di inviolabilità, dall’art. 24 Cost..

Come affermato dalla Corte Costituzionale (sent. 2 febbraio 1982 n. 18), il diritto alla tutela giurisdizionale va annoverato "fra quelli inviolabili dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art. 2" (sent. n. 98 del 1965), e che non esita ora ad ascrivere tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio”.

Ciò comporta, a tutta evidenza, che l’interpretazione della natura dell’azione e del contenuto della domanda deve essere effettuata dal giudice secondo un criterio di apprezzamento che necessariamente tenda a salvaguardare la possibilità di accesso al giudizio ed alla sua definizione con decisione nel merito, e, dunque, nel caso del giudizio amministrativo di annullamento, di accesso alla pronuncia che possa (sussistendone i presupposti) assicurare la tutela avverso gli atti della pubblica amministrazione.

Tutela che, ai sensi dell’art. 113 Cost., deve essere “piena”, in quanto “sempre ammessa” (primo comma), e non suscettiva di limitazioni per “particolari mezzi di impugnazione” ovvero per “determinate categorie di atti” (secondo comma).

Una interpretazione restrittiva o irragionevolmente formalistica, per un verso, si traduce in un vulnus per l’inviolabile diritto alla tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. (ribadito anche dall’art. 13 CEDU); per altro verso, finisce con il costituire, essa stessa, una limitazione di tale diritto, in quanto più specificamente rivolto alla tutela avverso gli atti della Pubblica Amministrazione.

Infatti, tale interpretazione verrebbe a tradursi, di fatto, in una limitazione di tutela derivante dalla tipologia/configurazione (come rappresentazione in concreto) del mezzo di impugnazione, laddove, come è evidente dalla lettura complessiva del tessuto costituzionale, l’esclusione di limitazioni all’impugnazione di atti per particolari mezzi, se non può, innanzi tutto, avvenire per previsione legislativa, altrettanto non può avvenire in base ad interpretazioni giurisprudenziali restrittive delle modalità di estrinsecazione del potere di agire in giudizio contro gli atti della pubblica amministrazione.

D’altra parte, se è vero che il giudice pronuncia in rito tutte le volte in cui riscontri il ricorso irricevibile, inammissibile o improcedibile (art. 35 Cpa), è altrettanto vero che - nell’esame della ricorrenza in concreto delle ipotesi astrattamente previste dalla legge e nella duplicità di sbocchi interpretativi possibili - deve essere considerato non prevalente quel risultato che consenta al giudice (e per suo stesso atto interpretativo) di liberarsi dall’obbligo di decidere la controversia nel merito (proprio perché ciò potrebbe costituire una lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, ex art. 24 Cost.). E ciò nel senso che il giudice – attraverso la verifica in concreto di tutti gli elementi desumibili dal complessivo contenuto dell’atto processuale - deve sempre dare prevalenza ad interpretazioni che consentano la conservazione dell’atto secondo lo scopo per il quale esso, nella prospettazione della parte attorea e/o ricorrente, era stato proposto, in coerenza con il tipo di azione esercitata.

Ovviamente, ciò che il giudice – nel bilanciamento di interpretazioni in ordine al contenuto dell’atto introduttivo del giudizio – deve assicurare non è il “risultato utile” invocato dalla parte che agisce in giudizio, ma solo il diritto della stessa a ricevere una pronuncia di merito.

D’altra parte, ciò non significa che il giudicante debba in ogni caso tendere alla “salvezza” del ricorso, E’, infatti, del tutto evidente che – a fronte del diritto alla tutela giurisdizionale, al quale pure deve essere assicurata prevalenza nei termini innanzi esposti – sussistono altri valori costituzionali e diritti costituzionalmente tutelati, cui occorre prestare la debita considerazione.

In primo luogo, occorre ricordare il diritto di difesa della parte evocata in giudizio, che deve potersi estrinsecare in relazione ad una res deducta in iudicio tale da garantirne sia la possibilità stessa di difesa (mediante il rispetto delle forme di evocazione in giudizio); sia (perché tale diritto abbia consistenza), l’effettività di una difesa conseguente ad una chiara individuazione del thema decidendum.

In questo senso (e in questi limiti), la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2007 n. 6711) ha affermato che “la formula di stile con la quale si estende l’impugnazione a ‘tutti gli atti antecedenti, preordinati, connessi, successivi e consequenziali’ è priva di qualsiasi valore processuale in quanto inidonea ad individuare uno specifico oggetto di impugnativa. Il particolare rigore di tale consolidato orientamento giurisprudenziale si giustifica ove si consideri che solo un’inequivoca determinazione del petitum processuale consente alle controparti la piena esplicazione del diritto di difesa in giudizio garantito dall’articolo 24, comma 2° della Costituzione” (in senso conforme, Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2009 n. 3105; sez. IV, 21 giugno 2001, n. 3346).

In secondo luogo, (e con particolare riferimento al giudizio amministrativo), occorre tener presente anche l’interesse pubblico alla stabilizzazione degli effetti dell’esercizio del potere amministrativo, cui si riconnette (e si giustifica costituzionalmente) la previsione di termini decadenziali per l’impugnazione di atti amministrativi.

La concreta disciplina del processo amministrativo mostra chiaramente la comprensione ed attuazione delle indicazioni ora ricordate, desumibili dai principi e dalle norme costituzionali, prevedendo una pluralità di ipotesi in cui viene, anche normativamente, assicurata la salvaguardia del diritto alla tutela giurisdizionale, ed in particolare:

- l’art. 32, comma 2, che attribuisce al giudice il potere di qualificazione dell’azione proposta “in base ai suoi elementi sostanziali”, conferendogli altresì il potere, “sussistendone i presupposti”, di poter “sempre disporre la conversione delle azioni”;

- l’art. 37, il quale consente al giudice, nel caso di “errore scusabile”, la rimessione in termini “in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto”;

- l’art. 44, che, nell’ambito di una ristretta e tassativa indicazione delle cause di nullità del ricorso (da distinguersi dalle irregolarità sanabili: co. 2), individua l’ipotesi di nullità per violazione di quanto prescritto dall’art. 40, in tema di “contenuto del ricorso”, solo nei casi in cui vi sia “incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda”;

- ancora l’art. 44, dove si sancisce (co. 3) che “la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione”.

In tutte queste ipotesi, dunque, il Codice assicura concreta prevalenza al diritto alla tutela giurisdizionale, limitando le ipotesi di pronuncia in rito, anche con il conferire al giudice poteri di qualificazione dell’azione e della domanda.

Né costituisce, in tale contesto, elemento “dissonante” il comma 2 dell’art. 40 (nel testo introdotto dal D. lgs. n. 160/2012), che sancisce l’inammissibilità di motivi in difetto di “specificità”, come prescritto dal co. 1, lett. d). Al contrario, tale disposizione, lungi dal colpire l’intero ricorso, limita la “sanzione” dell’inammissibilità al solo motivo “non specifico” (ferma la necessità, per il giudice, di individuare la presenza, o meno, di specificità in relazione all’ “oggetto della domanda”, di cui alla lett. b), alla “esposizione sommaria dei fatti”, di cui alla lett. c), ed alla “indicazione dei provvedimenti chiesti”, di cui alla lett. f).

10. Le prospettate “incertezza ed indeterminatezza” del ricorso (o più specificamente, della proposta azione di annullamento) non trovano riscontro nemmeno sotto il profilo di un (pur indicato dagli appellanti) superamento dei “limiti all’interno dei quali si ritiene ammissibile la proposizione di un ricorso cumulativo”.

La giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2006 n. 5906; sez. VI, 6 marzo 2003 n. 255) ha affermato che:

“nel processo amministrativo, in assenza di una espressa disciplina della connessione, il principio secondo il quale il ricorso giurisdizionale deve essere diretto contro un solo atto, oppure contro atti diversi ma collegati, si fonda sulla necessità di evitare la confusione tra controversie del tutto diverse, il che si verifica quando in un solo giudizio confluiscono atti che promanano da Autorità differenti, che difettano di ogni collegamento e che attengono a rapporti diversi.

Ne consegue che, al di fuori di tali ipotesi, la proponibilità o no del ricorso cumulativo deve essere valutata in termini di ragionevolezza e di giustizia sostanziale, senza formalismi privi di fondamento logico e, comunque, di per sé inidonei a giustificare una maggiore gravosità degli oneri procedurali posti a carico di chi vuole tutelarsi contro atti della Pubblica autorità ritenuti non legittimi”.

E sempre la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile il rimedio del ricorso cumulativo:

- allorché gli atti impugnati “si inseriscono in una vicenda unitaria, che giustifica, sia sotto il profilo logico sia sotto quello della economia processuale, la proposizione di un unico ricorso” (sent. n. 5906/2006 cit.);

- nel caso in cui “tra gli atti impugnati sussiste quanto meno una connessione procedimentale ovvero di presupposizione giuridica o quantomeno di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda (Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2010 n. 1564; sez. V, 29 dicembre 2009 n. 8914);

- qualora sussista tra i provvedimenti impugnati un vincolo di connessione che legittimerebbe la riunione dei ricorsi (Cons. Stato, sez. VI, 17 settembre 2009 n. 5548).

Alle indicazioni offerte dalla giurisprudenza, si aggiungono ora i riferimenti normativamente presenti nel Codice del processo amministrativo, il quale, pur non considerando espressamente l’istituto della connessione (a differenza del cpc.: artt. 31 – 36, art. 40), lo “presuppone”, in più riferimenti, quali:

- all’art. 32, dove si dichiara “sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale”;

- all’art. 43, in tema di “motivi aggiunti”, in base al quale il ricorrente (principale o incidentale), può “introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte” (co. 1), tanto che, se la domanda nuova “è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 70” (co. 3);

- all’art. 70, che conferisce al giudice il potere di “disporre la riunione di ricorsi connessi”.

A ben osservare, il Codice del processo amministrativo riunisce, sotto il comune istituto della “connessione”, species di questa affatto distinte.

Se ciò non fosse, la norma sulla “connessione” dei ricorsi che il giudice può riunire, ex art. 70 Cpa, risulterebbe una mera duplicazione di quella sulla riunione al ricorso “principale” dell’ulteriore ricorso con il quale si propone una domanda nuova, ma “connessa a quella già proposta”(art. 43, co. 3).

Al contrario, in quest’ultima ipotesi, la “novità” della domanda è data da un ulteriore successivo esercizio di potere provvedimentale da parte dell’amministrazione, in diretta dipendenza/derivazione dal primo (di modo che il nuovo provvedimento costituisce anch’esso inveramento – per così dire, per stati di avanzamento - del medesimo risultato di pubblico interesse cui è teleologicamente orientato l’esercizio di potere amministrativo: si pensi al caso di un decreto di occupazione di urgenza e di un successivo decreto di espropriazione).

Al contrario, nel primo caso, disciplinato dall’art. 70, può ricorrere sia l’ipotesi ora descritta, sia l’ipotesi di ricorsi che, distintamente proposti, riguardino atti amministrativi lesivi, i quali – senza essere legati da immediata presupposizione/consequenzialità, e pur costituendo l’esito di procedimenti diversi ed autonomi, nell’ambito dei quali si esercitano poteri di natura differente, anche attribuiti ad autorità amministrative diverse - afferiscono tuttavia:

- dal punto di vista della Pubblica Amministrazione, alla cura (tutela, perseguimento) del medesimo pubblico interesse ovvero di più interessi pubblici intimamente interdipendenti;

- dal punto di vista del soggetto ricorrente, alla tutela della propria medesima posizione giuridica sostanziale.

Ma se ciò è possibile affinché il giudice possa, ex art. 70 Cpa, portare alla propria cognizione ricorsi aventi domande diverse ed autonome, allora la stessa possibilità deve ritenersi offerta al ricorrente, il quale ben può, con un unico strumento di esercizio del proprio potere di azione, tutelare la propria posizione giuridica soggettiva, che riceve pregiudizio per effetto del concorrente e collegato esercizio di poteri amministrativi diversi, anche da parte di differenti Autorità.

Ciò è, peraltro, consentito dal Codice, come risulta argomentando dalla speculare lettura degli artt. 32 e 70, i quali appaiono disciplinare lo stesso fenomeno, riguardato ex ante – al momento dell’esercizio del potere di azione – ed ex post – al momento della conoscenza, da parte del giudice, della controversia nei suoi termini reali, concreti e complessivi.

Fermo quanto si è già innanzi affermato in relazione all’art. 70 Cpa, l’art. 32 appare disciplinare non solamente la possibilità di proporre domande diverse “nello stesso giudizio” (nel senso di cumulare più azioni differenti, rivolte avverso il medesimo atto amministrativo., con un unico ricorso), ma anche di poter utilizzare lo stesso giudizio, ed il medesimo ricorso di questo instaurativo, per impugnare anche atti provenienti da diverse autorità amministrative, conclusivi di procedimenti differenti, ma che presentano un comune denominatore.

Quest’ultimo è stato individuato dalla giurisprudenza – come sopra riportato - anche in epoca antecedente al Codice (sia pure, talvolta, con espressioni meramente descrittive), nella “unitarietà della vicenda”, nella “medesima vicenda sulla quale incidono più atti”, nella presupposizione “giuridica” o “logica” intercorrente tra gli atti stessi; nella vicenda che “legittimerebbe la riunione”.

Pur concordando con le indicazioni offerte, non sfugge come queste, lungi dal fornire una risposta in termini esaustivi, rimandino spesso anch’esse ad una ulteriore ricerca, volta ad individuare ciò che rende la vicenda “medesima o “unitaria”; cosa si intenda, nel caso di atti amministrativi, per presupposizione “giuridica” o “logica”. Meno utile (in quanto tendenzialmente tautologica), risulta, infine, l’indicazione del fondamento della connessione delle azioni nei casi in cui sarebbe possibile la riunione dei ricorsi.

Orbene, ciò che appare produrre la “connessione” tra domande (il comune denominatore tra le medesime) è la unitarietà della posizione giuridica che il soggetto intende tutelare in giudizio, per il tramite di tutte le azioni offertegli dall’ordinamento.

Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (sentt. 3 agosto 2011 n. 4644; 7 marzo 2013 n. 1403), la posizione di interesse legittimo presuppone ed esprime necessariamente una relazione intercorrente tra un soggetto, che ha (o intende ottenere) una determinata utilità (quella relazione, cioè, che viene riferita ad un “bene della vita”, terminologia fatta propria anche da Cass. Sez. Un., n. 500/1999), e la Pubblica Amministrazione nell’esercizio di un potere ad essa attribuito dall’ordinamento giuridico.

Si è affermato anche che tale relazione, riguardata dalla posizione del privato, può essere:

- sia volta a conseguire un’utilitas consistente nel neutralizzare l’esercizio del potere amministrativo, a tutela di un patrimonio giuridico già esistente che verrebbe compresso dall’esercizio del potere amministrativo medesimo (situazione nella quale ormai si ritiene generalmente ricorrere quella species del genus interesse legittimo definibile quale interesse legittimo oppositivo e nell’ambito della quale la definizione di “bene della vita”, estremamente affine a quella di “bene” ex art. 810 c.c., non è suscettibile di determinare perplessità e/o fraintendimenti);

- sia volta ad ottenere l’esercizio del potere amministrativo negato dall’amministrazione, attraverso il quale si intende conseguire un ampliamento del proprio patrimonio giuridico (cd. interesse legittimo pretensivo), situazione nella quale il concetto di “utilitas”, più che costituire una specificazione del “bene della vita”, si presenta come concetto sostitutivo e più adeguato di questo, al fine di definire il “lato interno” e “sostanziale” della posizione giuridica del privato.

Orbene, se l’interesse legittimo si caratterizza, per così dire sul suo “lato interno”, per la relazione con un bene o una utilitas, nei sensi ora richiamati, allo stesso tempo esso si rappresenta, sul suo “lato esterno”, per una o più relazioni con uno o più poteri amministrativi, volti - in modo coerente (cioè coordinato alla tutela dell’interesse pubblico complessivo anche per il tramite dell’esercizio di poteri amministrativi singolarmente attribuiti) - a comprimerlo o ad ampliarlo.

In modo non diverso dal diritto soggettivo, anche l’interesse legittimo si propone con un lato interno – inerenza tra soggetto e bene/utilitas che ne costituisce il fondamento – ed un lato esterno, caratterizzato dal “rapporto giuridico” intercorrente con un soggetto “altro”. Ma a differenza del diritto soggettivo, il rapporto giuridico (e dunque la proiezione della posizione sostanziale sul suo lato esterno) intercorre esclusivamente con la Pubblica Amministrazione, pur se, come è ben possibile, in esercizio di poteri diversi da parte di differenti autorità alle quali ne è attribuita la titolarità.

Ciò comporta che, pur a fronte dell’esercizio di poteri amministrativi diversi, ma incidenti sulla medesima posizione sostanziale, ben può il soggetto che di tale posizione è titolare, e che intende tutelarla in giudizio, “cumulare” in un unico ricorso l’impugnazione di più atti amministrativi, proponendo domande “analoghe” (ad esempio, di annullamento) contro ciascuno di essi, ovvero domande diverse contro lo stesso o differenti atti impugnati.

Il rapporto giuridico che lega, in questa vicenda, il soggetto e l’amministrazione si caratterizza, da un lato, per la identità/unicità della posizione di interesse legittimo leso; dall’altro lato, per la pluralità dei poteri amministrativi esercitati, e teleologicamente orientati alla realizzazione/tutela di un solo, più ampio e complessivo, interesse pubblico ovvero di più interessi pubblici, che richiedono, in modo convergente e sincronico, il sacrificio oppure il mancato ampliamento dell’interesse legittimo considerato (ove tali poteri siano legittimamente esercitati), ovvero che provocano una illegittima compressione o mancato ampliamento dell’interesse legittimo, se il relativo esercizio di potere risulta affetto da vizi di legittimità.

Con questa premessa di inquadramento, ben può essere condiviso quanto affermato dalla giurisprudenza (sez. VI, sent. n. 5906/2006), allorché afferma che “la proponibilità o no del ricorso cumulativo deve essere valutata in termini di ragionevolezza e di giustizia sostanziale, senza formalismi privi di fondamento logico e, comunque, di per sé inidonei a giustificare una maggiore gravosità degli oneri procedurali posti a carico di chi vuole tutelarsi contro atti della Pubblica autorità ritenuti non legittimi”.

La conclusione cui si è pervenuti trova un riscontro “in parallelo” nelle ragioni per le quali il codice di procedura civile consente il “cumulo soggettivo” (art. 33 c.p.c.), allorché, cioè, le cause “sono connesse per l’oggetto o per il titolo”.

Ed infatti, a ben osservare, nel giudizio impugnatorio di atti, il problema del ricorso cumulativo non è rappresentato dalla pluralità di domande proponibili avverso il medesimo atto (problema che si è posto, in buona sostanza, dopo l’introduzione della domanda di condanna della P.A. al risarcimento del danno, e che è stato prontamente risolto dalla giurisprudenza ed ora dall’art. 32).

Tale problema consiste, più propriamente, nella possibilità (o meno) di presentare, con unico ricorso più domande (analoghe o anche diverse) contro più atti amministrativi. In questo caso, ciò che si propone è un problema di cumulo soggettivo, che trova la sua possibile positiva soluzione nella identità del titolo (posizione sostanziale per la quale si reclama tutela) e nella coerenza degli interessi pubblici cui afferiscono gli atti impugnati, verso la cui dimensione unitaria è teleologicamente orientata la pluralità dei poteri amministrativi esercitati.

Ed in tale contesto, sia che ricorra l’ipotesi di atti emanati in successione temporale, ma volti alla attuazione di un unico interesse pubblico (si ricordi, ancora, l’esempio decreto di occupazione di urgenza/decreto di espropriazione), quanto se ricorra l’ipotesi di più atti emanati, anche in conclusione di più procedimenti “paralleli” o variamente intersecantisi, da parte di autorità diverse, non emergono differenze nella sostanza del problema e nella sua possibile soluzione.

Vale a dire che la connessione risulta corrispondente, nel giudizio amministrativo, ad un “cumulo soggettivo” di domande, che trova il proprio baricentro nella unicità della posizione giuridica lesa e, quindi, nella “unitaria” pretesa alla tutela giurisdizionale di essa.

Solo una ricostruzione del processo amministrativo che ponga (ancora) al centro di questo l’illegittimità dell’atto e non già la tutela della posizione giuridica della quale il suo titolare assume la lesione, in tal modo implicitamente contravvenendo alla natura “soggettiva” della giurisdizione (ed ora anche alle espresse previsioni del Codice e, prima ancora, della Costituzione), solo una tale ricostruzione, si ripete, impedisce di fondare la “cumulatività” delle azioni e delle domande sulla “identità del titolo o dell’oggetto”, ponendo al centro – con affermazione piena di “sostanzialità” – l’interesse legittimo.

D’altra parte, se – come prescrive l’art. 7, co. 7, Cpa - “il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi”, appare ipotesi minore (e certamente non negabile, senza ledere il medesimo principio di effettività), quella di concentrare innanzi al giudice amministrativo, nel medesimo processo, la tutela del medesimo interesse legittimo pregiudicato da più atti amministrativi, pur emanati da differenti Autorità in esercizio di poteri diversi, ma volti al conseguimento del medesimo risultato, alla medesima – come si è detto – “dimensione unitaria” dell’interesse pubblico nel caso di specie.

11. Quanto si è sin qui esposto, e dunque la riconosciuta possibilità di interpretare l’ammissibilità dal ricorso cumulativo collegandola alla effettività di tutela dell’ (unica) posizione sostanziale intercettata da più atti amministrativi lesivi, giustifica, a maggior ragione, l’esperibilità dello strumento del ricorso cumulativo, da parte di associazioni, che - per essere riconosciute quali “portatrici” di interessi adespoti o superindividuali (richiamato quanto in precedenza esposto, sub paragrafo 7), nel caso di specie in materia ambientale - operano con riferimento ad un ambito più vasto di interessi, alla tutela dei quali sono state riconosciute legittimate dall’ordinamento.

In altre parole, mentre l’interesse legittimo e la sua tutela costituiscono sia il riferimento dell’esperibilità del ricorso cumulativo ed il suo limite, allo stesso modo gli “interessi” in materia ambientale costituiscono ragione della legittimazione ad agire delle associazioni, ragione della ammissibilità del ricorso cumulativo, ed anche il limite della sua esperibilità.

Ma è del tutto evidente che, in questo caso, l’ambito di esperibilità del ricorso cumulativo – pur senza modificare i presupposti che lo rendono ammissibile, rispetto a quelli valevoli per il singolo cittadino titolare di interesse legittimo – non possono che risultare, oggettivamente ed inevitabilmente, più ampi.

Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, nel caso di specie caratterizzato – così come affermato dal I giudice – da una eterogeneità “perfettamente fisiologica”, in considerazione della materia, poiché in questa “convergono valutazioni di carattere urbanistico, edilizio, ambientale e paesaggistico, formalmente distinte e come tali attribuite alle cure di enti diversi, ma pur sempre convergenti verso un unico risultato finale, che è quello di consentire la realizzazione dell’intervento” (in loc. Capo Malfatano del Comune di Teulada), il Collegio:

- per un verso, non riscontra affatto quella “incertezza assoluta sull’oggetto della domanda”, indicato dall’art. 44 Cpa, e che, per le ragioni esposte, deve essere individuato come limite oltre il quale non è consentito alcun favor interpretativo nel senso della conservazione dell’atto (potendosi esso risolvere, in questo caso, in una non ammessa “operazione ortopedica” del giudice, in violazione sia dei limiti del potere giurisdizionale, sia del diritto di difesa delle altre parti evocate in giudizio);

- per altro verso, ritiene correttamente esperito lo strumento del ricorso cumulativo, e dunque, per tale profilo, ammissibili le domande proposte;

- per altro verso ancora, ritiene che la sentenza impugnata abbia fatto una legittima e ragionevole identificazione vuoi degli atti concretamente impugnati, per il tramite di una valutazione complessiva del contenuto del ricorso (della sua causa petendi e del suo petitum), vuoi dei motivi di ricorso (e vizi di legittimità) a questi riferibili, vuoi, infine, del preciso ambito degli effetti caducatori della pronuncia di annullamento (e degli atti da questa coinvolti), non proponendosi, dunque, alcuna violazione (peraltro non specificamente dedotta) di quanto previsto dall’art. 34, co. 2, secondo periodo, Cpa.

Per le ragioni esposte, devono essere respinti i motivi di appello sub a) e c) in parte, dell’appello SITAS ed il motivo sub p) dell’appello del Comune di Teulada.

12. I motivi con i quali si censura la sentenza impugnata per non avere rilevato la tardività del ricorso instaurativo del giudizio di I grado [motivi sub b) in parte, d), e) ed f) dell’appello SITAS; motivi sub h), l) ed m) dell’appello Comune], nonché i motivi con i quali si ripropongono, in sostanza, le eccezioni di difetto di interesse, stante la mancanza di lesività degli atti impugnati [sub b) in parte, c) in parte, dell’appello SITAS; motivi i) ed o) dell’appello Comune], sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

Con i motivi relativi al difetto di interesse, si rileva, in particolare:

- la delibera CC di Teulada n. 13/2010 (con la quale sono state approvate alcune rimodulazioni plano-altimetriche nel sub comparto E1/e – f), non ha alcuna portata lesiva, poiché essa “costituisce atto di avvio di procedure complesse che prevedono successivi atti di definizione di competenza dell’amministrazione regionale” [motivo sub b) in parte];

- la sentenza afferma la persistenza dell’interesse a ricorrere, poiché l’eventuale annullamento di atti a monte “comporterebbe il blocco totale quanto meno dei fabbricati di natura residenziale e/o alberghiera” [motivo sub c) in parte];

- la domanda di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 appare “affetta da evidente carenza di interesse, non rinvenendosi alcuna utilità per l’associazione ambientalista ad ottenere la caducazione di un atto autorizzatorio che . . . non aveva indotto aggravi ambientali in relazione ad un intervento edilizio già interamente programmato, autorizzato ed ampiamente realizzato” [motivo sub i)];

- “il disposto annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 non poteva essere fatto conseguire, ex se, all’annullamento delle determinazioni” nn. 2205 e 2218 del 2002, e ciò in quanto – stante la disposizione transitoria di cui all’art. 35, co. 2 ter, d. lgs. n. 152/2006 – le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo stesso “sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento”, di modo che “gli effetti prodotti dalle sorti di tali valutazioni sui relativi atti consequenziali debbano essere valutati alla luce della medesima normativa”. Da ciò consegue che la relativa censura proposta in I grado, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per difetto di interesse.

Il Collegio ritiene, in ciò condividendo la ricostruzione operata dal I giudice, che vi sia sussistenza (e persistenza) di interesse ad agire nei confronti degli atti indicati dalle parti appellanti.

Occorre innanzi tutto osservare che la censura di difetto di interesse di singoli motivi di ricorso si accompagna – costituendone talora un complemento – alla più ampia censura di indeterminatezza del ricorso, ovvero alla censura di ampliamento del thema decidendum, che sarebbe stata operata dalla sentenza impugnata in contestato difetto (talora) di espresso motivo di impugnazione.

Richiamate, per tale parte, le considerazioni già espresse in precedenza (e che risultano essere proficuamente utilizzabili anche al fine di una migliore percezione della sussistenza e persistenza dell’interesse ad agire), il Collegio rileva come tale interesse sussista pienamente a fronte di atti che – inserendosi con finalità di pianificazione ovvero con efficacia autorizzatoria – nel complesso procedimento volto alla realizzazione di un importante intervento edilizio a Capo Malfatano, contribuiscono, ciascuno di essi, anche quali espressione di poteri distinti, al conseguimento del risultato finale della edificazione; risultato che, senza il relativo esercizio di potere non sarebbe (in tutto o in parte) possibile raggiungere.

D’altra parte, occorre ricordare che, nel caso in esame, l’interesse ad agire non si lega ad una “tradizionale” posizione di interesse legittimo, ma ad una più ampia posizione riconosciuta dall’ordinamento non già per la tutela di una specifica, puntuale posizione sostanziale, quanto per la tutela di un più generale interesse alla conservazione dell’ambiente, salvaguardandolo da irreversibili compromissioni.

Il che rende “parametro” per l’esame della sussistenza dell’interesse ad agire non già quella singola posizione giuridica, bensì il più complessivo e generale “interesse pubblico ambientale”, del quale l’associazione, per espressa previsione legislativa ed attribuzione provvedimentale, è stata resa “custode”, non già nel senso della “titolarità” di una posizione giuridica (tantomeno in via esclusiva), quanto nel senso della attribuzione di una speciale legittimazione a evocare il sindacato giurisdizionale.

Alla luce delle considerazioni ora espresse, appare, quindi, del tutto evidente l’interesse a ricorrere sia avverso la delibera CC di Teulada n. 13/2010, sia in ordine alla autorizzazione paesaggistica n.13/2009, così come ben può condividersi l’affermazione della sentenza, secondo la quale (pag. 36):

“se è vero, per un verso, che (talune) concessioni non possono considerarsi impugnate, essendo citate esclusivamente nella parte in fatto del ricorso e senza alcuna indicazione di doglianze ad esse specificamente riferibili, questo, tuttavia, non esclude la sussistenza di un persistente interesse di Italia Nostra ad ottenere la caducazione di altri atti della complessa procedura, giacché tale caducazione comporterebbe il “blocco totale” quanto meno dei fabbricati di natura residenziale e/o alberghiera (che sono, ovviamente, cosa diversa rispetto alle opere di urbanizzazione), realizzando in tal modo l’obiettivo finale della ricorrente, che è quello di evitare la modifica dell’assetto ambientale implicato; senza considerare, peraltro, che una simile evenienza priverebbe di qualsivoglia funzione le stesse opere di urbanizzazione, paralizzando in concreto tutto l’intervento”.

Infine, non rileva – sotto il profilo della sussistenza dell’interesse ad agire – la circostanza che “il disposto annullamento dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009 non poteva essere fatto conseguire, ex se, all’annullamento delle determinazioni” nn. 2205 e 2218 del 2002, e ciò in quanto – stante la disposizione transitoria di cui all’art. 35, co. 2 ter, d. lgs. n. 152/2006 – le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo stesso “sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento”, di modo che “gli effetti prodotti dalle sorti di tali valutazioni sui relativi atti consequenziali debbano essere valutati alla luce della medesima normativa”.

Appare, infatti, evidente che il disposto annullamento delle citate determinazioni dell’amministrazione regionale, nella misura in cui comporta il riesercizio di un potere discrezionale (sia pure di discrezionalità tecnica), sorregge la sussistenza dell’interesse all’impugnazione dell’atto consequenziale, indipendentemente dalla normativa applicabile al caso di specie, e, più precisamente, anche se il predetto ri-esercizio di potere amministrativo deve essere effettuato in applicazione della medesima (previgente) normativa primaria.

13. Anche i motivi con i quali si censura la irricevibilità del ricorso per tardività sono, come si è detto, infondati e devono essere, pertanto, respinti.

Con tali motivi si rileva:

- in linea generale, la tardività, in quanto il ricorso è rivolto avverso provvedimenti “tutti adottati e sottoposti alle previste forme di pubblicazione quanto meno oltre un anno prima della loro impugnazione” [motivi sub d) appello SITAS e sub h) appello Comune];

- in particolare, relativamente alle determinazioni regionali nn. 2205 e 2218 del 2002, l’ampio superamento del termine decadenziale di impugnazione, computato dalla loro pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione [motivi sub e) SITAS – che rileva inoltre come la loro conoscenza si desuma anche dall’essere stati essi citati in atti successivi - e sub m) Comune];

- ancora in particolare, il termine di impugnazione delle delibere del Comune di Teulada, “trattandosi di atti amministrativi generali, non destinati ad incidere direttamente nella sfera giuridica dell’amministrazione ricorrente”, non poteva che decorrere “dalla avvenuta pubblicazione degli atti stessi nelle forme legalmente previste” [motivo sub l) Comune e sub b) in parte SITAS, relativamente alla delibera CC n. 13/2010];

- infine, la piena conoscenza dell’autorizzazione paesaggistica n. 13/2009, ben prima dei sessanta giorni antecedenti alla notificazione del ricorso, poiché si era fornita la prova di detta tardività, “producendo in giudizio una documentazione probante (e non contestata) che dimostrava lo stato di avanzamento e di pressoché completamento dei tre edifici oggetto di quella autorizzazione al 31 dicembre 2010, e dunque prima dei sessanta giorni dalla data di proposizione del ricorso” [motivo sub f) SITAS].

Orbene, ai fini dell’esame dei profili di irricevibilità del ricorso per tardività, e, più in particolare, della corretta individuazione della intervenuta “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione, e dunque del dies a quo di decorrenza del termine decadenziale (art. 41 Cpa) , questa Sezione (sent. 28 maggio 2012 n. 3159, dalle cui conclusioni non vi è ragione di discostarsi) ha già avuto modo di affermare che la “piena conoscenza” dell’atto lesivo, non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.

Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” - il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale - è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.

Si è sostenuto, infatti, che:

“mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.

Ma la previsione dell’istituto dei motivi aggiunti (nella formulazione dei medesimi anteriore al nuovo e distinto ricorso per motivi aggiunti, poi introdotto dalla l. n. 205/2000: ora art. 43 Cpa) comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione, poiché se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, tale rimedio non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.

In definitiva, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la “piena conoscenza”, indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente ammissibile – quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire - l’azione in sede giurisdizionale.

Ovviamente, la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, o che devono essere rigorosamente indicati dalla parte che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio.

Se, dunque, la “piena conoscenza” deve essere intesa come conoscenza della lesività dell’atto per la posizione giuridica del soggetto che agisce in giudizio, nel caso delle associazioni legittimate alla tutela di interessi diffusi, solo allorché il singolo atto da impugnarsi (da solo, o unitamente ad una pluralità di atti emanati in esercizio di poteri diversi, ma teleologicamente collegati verso il perseguimento di unico risultato finale) si dimostra lesivo della più generale materia dell’ambiente, si realizza quella piena conoscenza che, ai sensi dell’art. 41 Cpa, determina il dies a quo per la decorrenza del termine decadenziale.

Una “piena conoscenza” che, così definita, potrebbe realizzarsi anche successivamente alla materiale conoscenza del singolo provvedimento, posto che questo – avulso da un contesto complessivo di esercizio di pubblici poteri – potrebbe non presentarsi, solitariamente considerato, come lesivo del bene – ambiente.

Deve, dunque, condividersi la sentenza impugnata, laddove essa afferma che:

“una procedura così complessa come quella impugnata, nell’ambito della quale si sono succeduti provvedimenti di contenuto (formalmente) urbanistico, paesaggistico e ambientale, nonché sviluppatasi nel corso di un arco di tempo molto esteso (i primi atti impugnati risalgono al 2000, gli ultimi al 2010) può considerarsi “efficacemente portata a conoscenza” solo nel momento in cui il soggetto potenzialmente interessato (quale è certamente un’associazione ambientalistica) abbia avuto esaustiva contezza di tutte le fasi in cui la procedura stessa si è articolata; un grado di conoscenza, questo, che non è certo assicurato dall’ordinario meccanismo di pubblicazione dei piani di lottizzazione, sia perché la conoscenza “isolata” di quell’atto amministrativo non poteva consentire una valutazione complessiva in ordine alla “portata ambientale” del programmato intervento, sia perché la pubblicazione effettuata in ambito esclusivamente regionale non può ragionevolmente costituire un sistema efficace di pubblicità in relazione ad associazioni che operano a livello nazionale. . .”

Specularmente, occorre affermare che è in relazione alla lesione del bene comune, oggetto di interessi generali o diffusi, che deve essere fornita la prova della intervenuta conoscenza dell’atto da parte dell’associazione e, dunque, la eventuale irricevibilità per tardività del ricorso da questa proposto.

Nel caso di specie:

- per un verso, non viene fornita prova della piena conoscenza degli atti (nel senso sopra indicato) da parte dell’associazione ambientalista, e dunque della conseguente tardività del ricorso;

- per altro verso, non diversamente da quanto la giurisprudenza ha già pacificamente affermato con riferimento al ricorso del singolo titolare di interesse legittimo, il dies a quo per la decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale non può essere fatto decorrere – tanto meno per una associazione a carattere nazionale – dall’ultimo giorno di pubblicazione all’albo pretorio del Comune, ovvero dalla pubblicazione di un atto non avente contenuto normativo, sul Bollettino Ufficiale della Regione.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, anche i motivi con i quali si è sostenuta l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per tardività (come innanzi precisati), sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

14. I motivi con i quali sia la SITAS, sia il Comune di Teulada censurano la sentenza impugnata, nella parte in cui la stessa ha ritenuto necessaria l’attivazione della procedura di VIA e, dunque, l’illegittimità degli atti amministrativi che ciò non hanno disposto [motivi sub g), app. SITAS e sub n), app. Comune], sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

Come si è già avuto modo di illustrare nella precedente esposizione in fatto, il I giudice ha, in sostanza, ritenuto illegittimi gli atti amministrativi (in specie, determinazioni regionali) con i quali si è esclusa la necessità di sottoposizione a VIA degli strumenti che, mediante idonea pianificazione, consentono un intervento di vaste dimensioni in loc. Capo Malfatano del Comune di Teulada, poiché la decisione di esclusione è il frutto di un “travisamento dei fatti”, ottenuto attraverso una analisi parcellizzata dell’intervento, effettuata valutando singolarmente ciascun sub-comparto, così perdendo di vista l’unitarietà (e dunque, l’aggressività per l’ambiente) dell’intervento che si andava a pianificare e, successivamente, ad autorizzare e realizzare.

La sentenza appellata ha innanzi tutto precisato che le considerazioni con le quali la Regione (con le determinazioni nn. 2205/2002 e 2218/2002) ha escluso di procedere a VIA sono “assai scarne e senza, comunque, prendere in considerazione il problema dell’unitarietà o frammentazione della verifica in relazione ai singoli sub comparti”. E ciò mentre “l’area oggetto dell’intervento proposto dalla SITAS costituisce un contesto ambientale di enorme pregio, in relazione al quale dovranno essere adeguatamente valutati, sotto il profilo motivazionale ed istruttorio, gli atti (impugnati) in virtù dei quali le amministrazioni interessate hanno ritenuto compatibile un intervento di enormi dimensioni (139.000 metri cubi complessivi, richiamando la cifra indicata dalla stessa difesa del Comune di Teulada. . . ), capace di interessare - in virtù di cinque piani di lottizzazione formalmente distinti - sei dei nove sub comparti in cui il vigente P.U.C. articola l’intera loc. Malfatano, mediante la realizzazione di insediamenti residenziali ed alberghieri posizionati a breve distanza dal mare”.

Secondo la sentenza:

“l’aver effettuato la cd. “verifica preliminare” di compatibilità in modo parcellizzato di per sé configura un gravissimo travisamento dei fatti, tale da compromettere in radice l’accertamento degli effetti ultimi sull’ambiente di un intervento di enorme entità, operato in una zona da tempo sottoposta a vincolo paesaggistico”, mentre era evidente che, “a prescindere dalla sua formale scomposizione in sub comparti, l’intervento proposto fosse sostanzialmente unitario”, trattandosi di “interventi connessi sotto il profilo soggettivo, territoriale ed ambientale”.

In conclusione, “in tale contesto l’assenza di una valutazione complessiva ai fini della (sola) V.I.A. si pone in radicale contrasto con la sua ontologica finalità, che è quella di accertare gli effetti ultimi dell’intero intervento sull’ambiente, nonché di valutarne la compatibilità e/o di suggerire sistemi ‘di minor impatto’, senza esclusione della cd. ‘opzione zero’ ”.

I motivi di appello proposti lamentano, in sostanza:

- una invasione, da parte del giudice, del cd. “merito” amministrativo, poiché si perverrebbe “a sovrapporre il proprio giudizio di merito a quello assunto dalle competenti amministrazioni nell’esercizio delle loro prerogative di discrezionalità tecnica” (così app. Comune, pag. 24) ed in ogni caso, la decisione, frutto di esercizio di discrezionalità tecnica, è assistita da sufficiente motivazione, in quanto quest’ultima va rapportata “a quanto richiesto ad una procedura che, per scelta legislativa, poteva validamente concludersi in senso positivo con un pronunciamento tacito” (app. SITAS, pag. 51);

- la congruità della assunta decisione di non sottoposizione a VIA, posto che l’area turistica, inserita all’interno del Piano urbanistico comunale, è da questo suddivisa in cinque sub comparti “anche in considerazione della loro non contiguità, appartenenza a versamenti differenti, separazione fisica e orografica”; ne consegue che “gli indici di valutazione unitaria sono da ritenersi errati visto che le parti di territorio non sono finitime, infatti i sub comparti sono posizionati in aree distanti 2,5 – 3 Km con discontinuità orografiche e territoriali, tali per cui sarebbe illogico procedere ad una valutazione unica. Inoltre gli stessi non sono funzionalmente connessi, in quanto alcuni hanno destinazione alberghiera ed altri residenziale” (app. SITAS, pag. 42-43). In definitiva, si tratta di “piani di lottizzazione autonomi, approvabili e realizzabili singolarmente e privi di un rapporto di interdipendenza funzionale” (app. Comune, pagg. 22-23); né rileva l’unicità della proprietà dell’area (app. SITAS, pag. 43; app. Comune, pagg. 22);

- infine, la riconducibilità dell’intervento al punto 8, lett. a), All. b) DPR 12 aprile 1996, posto che gli interventi di cui all’All. b) sono da sottoporre necessariamente a VIA, ai sensi dell’art. 1, co. 4, DPR cit., solo se “ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394”; ebbene “nessuna di queste aree naturali protette è presente nella zona interessata dagli interventi SITAS”.

Orbene, come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 5 luglio 2010 n. 4246), con considerazioni da ribadire nella presente sede, la valutazione di impatto ambientale (VIA) è preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità umana (Cons. St., sez. VI, 18 marzo 2008, n. 1109), attribuendo ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di derivazione comunitaria (direttiva 27 luglio 1985 n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati); diritto che obbliga l’amministrazione a giustificare, quantomeno ex post ed a richiesta dell’interessato, le ragioni del rifiuto di sottoporre un progetto a V.I.A. all’esito di verifica preliminare (Corte giust. 30 aprile 2009, C-75/08).

A tali fini, l’ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico–naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona.

A conferma di ciò, occorre ricordare che la Corte Costituzionale (sent. 7 novembre 2007 n. 367), ha affermato che “lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, è di per sé un valore costituzionale”, da intendersi come valore “primario” (Corte Cost., sentt. nn. 151/1986; 182/2006), ed “assoluto” (sent. n. 641/1987).

A fronte di quanto esposto, la VIA non può essere, dunque, intesa come limitata alla verifica della astratta compatibilità ambientale dell’intervento, ma si sostanzia in una analisi comparata tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio economica, tenuto conto delle alternative praticabili e dei riflessi della stessa “opzione zero”. In questo senso, la natura discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende fisiologico - e coerente con la ratio dell’istituto innanzi evidenziata - che si pervenga ad una soluzione negativa tutte le volte in cui l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa.

Ne discende la possibilità di bocciare progetti che arrechino un vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste (Cons. St., sez. VI, 22 febbraio 2007, n. 933).

In questa direzione, la giurisprudenza comunitaria conferisce alla procedura di V.I.A., nel quadro dei mezzi e modelli positivi preordinati alla tutela dell’ambiente, un ruolo strategico, valorizzando le disposizioni della direttiva 85/337, che evidenziano come la politica comunitaria dell’ambiente consista, innanzi tutto, nell’evitare fin dall’inizio inquinamenti ed altri danni all’ambiente, anziché combatterne successivamente gli effetti; in pratica, la tutela preventiva dell’ambiente (Corte giust., sez. V, 21 settembre 1999, c-392/96; sez. VI, 16 settembre 1999, c-435/97).

Tanto premesso, occorre ricordare che il giudizio di valutazione di impatto ambientale e l’atto di verifica preliminare costituiscono esercizio di una ampia discrezionalità tecnica, censurabile, in sede di sindacato di legittimità, oltre che per incompetenza e violazione di legge, anche in relazione alle figure sintomatiche di eccesso di potere per difetto, insufficienza o contraddittorietà della motivazione, ovvero per illogicità o irragionevolezza della scelta operata, o anche per difetto di istruttoria, errore di fatto, travisamento dei presupposti (Cons. St., sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246; sez. VI, 19 febbraio 2008, n. 561; sez. VI, 30 gennaio 2004, n. 316; Trib. Sup. acque pubbliche, 11 marzo 2009, n. 35).

Tanto premesso in linea generale, nel caso di specie, la sentenza appellata non risulta avere sconfinato dai limiti propri del sindacato giurisdizionale di legittimità, procedendo anzi, in modo coerente con detti limiti:

- sia ad individuare la natura dell’intervento;

- sia la particolare valenza ambientale della località (Capo Malfatano), in cui l’intervento sarebbe venuto a collocarsi;

- sia, infine, le ragioni di “collegamento funzionale” tra sub comparti in vista del complessivo intervento pianificatorio, tali da rendere necessaria una valutazione unitaria dell’intervento, ai fini del decidere sulla sua sottoponibilità (o meno) a V.I.A..

Ovviamente, le considerazioni sviluppate in sentenza ben possono essere oggetto (come peraltro avvenuto nel caso di specie), di specifici motivi di impugnazione, volti a dimostrare gli “errores in iudicando” in cui la stessa sarebbe incorsa. Ma costituiscono aspetti ben differenti, da un lato, l’imputare al giudice di avere debordato dai limiti propri del suo potere di sindacato di legittimità e, dall’altro, censurare nel merito il percorso argomentativo della decisione o singoli aspetti di questa.

15. Il Collegio rileva che – come affermato dalla sentenza appellata – l’area oggetto dell’intervento proposto dalla SITAS costituisce un contesto ambientale di enorme pregio (alla luce degli specifici e plurimi riscontri indicati dal I giudice).

E’ in questa area che – secondo la sentenza – “le amministrazioni interessate hanno ritenuto compatibile un intervento di enormi dimensioni (139.000 metri cubi complessivi, richiamando la cifra indicata dalla stessa difesa del Comune di Teulada. . .) capace di interessare - in virtù di cinque piani di lottizzazione formalmente distinti - sei dei nove sub comparti in cui il vigente P.U.C. articola l’intera loc. Malfatano, mediante la realizzazione di insediamenti residenziali ed alberghieri posizionati a breve distanza dal mare”.

Orbene, la giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 25 luglio 2008 n. c-142/07), ha chiarito che:

- par. 33: “da una giurisprudenza ormai ben consolidata risulta che gli Stati membri devono attuare la direttiva modificata, così come la direttiva 85/337, in modo pienamente conforme ai precetti dalla stessa stabiliti, tenendo conto del suo obiettivo essenziale che, come si evince dal suo articolo 2, n. 1, consiste nel garantire che, prima della concessione di un'autorizzazione, i progetti idonei ad avere un impatto ambientale rilevante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, siano sottoposti una valutazione del loro impatto (v. in tal senso, in particolare, sentenze 19 settembre 2000, causa C-287/98, Linster, Racc. pag. I-6917, punto 52, e 23 novembre 2006, causa C-486/04, Commissione/Italia, Racc. pag. I-11025, punto 36)”;

- par. 44: “va infine sottolineato che, come già rilevato dalla Corte in merito alla direttiva 85/337, l'obiettivo della direttiva modificata non può essere aggirato tramite il frazionamento di un progetto e che la mancata presa in considerazione dell'effetto cumulativo di più progetti non deve avere il risultato pratico di sottrarli nel loro insieme all'obbligo di valutazione laddove, presi insieme, essi possono avere un notevole impatto ambientale ai sensi dell'articolo 2, n. 1, della direttiva modificata (v., per quanto riguarda la direttiva 85/337, sentenze 21 settembre 1999, causa C-392/96, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-5901, punto 76, e Abraham e a., cit., punto 27).

Anche la giurisprudenza amministrativa, ha avuto modo di affermare che “per valutare se occorra o meno la VIA è necessario avere riguardo non solo alle dimensioni del progettato ampliamento di opera già esistente, bensì alle dimensioni dell'opera finale, risultante dalla somma di quella esistente con quella nuova, perché è l'opera finale nel suo complesso che, incidendo sull'ambiente, deve essere sottoposta a valutazione" (Cons. Stato, Sez. VI, 15 giugno 2004, n. 4163; Sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760).

Orbene, nel caso di specie – trattandosi, peraltro, di procedimenti volti all’assetto urbanistico di una parte di territorio rilevante e di notevole pregio – l’amministrazione (in specie, regionale), avrebbe dovuto procedere ad una considerazione unitaria dell’intervento, sia in quanto si trattava di definire la pianificazione di un’area complessivamente indicata come turistica (ancorché suddivisa in una pluralità di sub comparti), e dunque già caratterizzata da unitarietà della destinazione, sia in quanto, per le proprie dimensioni – da valutarsi unitariamente, per le considerazioni esposte – l’intervento si poneva (almeno in sede di verifica preliminare, ai sensi dell’art. 10 DPR 12 aprile 1996), come potenzialmente aggressivo dell’ambiente, riguardato sotto i molteplici aspetti indicati innanzi tutto dalla giurisprudenza comunitaria e costituzionale.

Ed infatti, se la finalità della normativa di tutela dell’ambiente (e per essa, la valutazione di impatto ambientale) è quella di preservare il territorio (valore primario e assoluto, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale) dalla compromissione derivante da un nuovo intervento, la verifica della sussistenza (o meno) di un possibile equilibrio tra nuova edificazione e ambiente preesistente, non può che essere effettuata unitariamente, con riferimento ad una zona che si caratterizza per una sua complessiva ed unitaria “comprensione”, in ragione di coordinate geografiche, paesaggistiche, culturali

In tal senso, non si rappresentano come elementi determinanti, al fine di negare il “carattere unitario” dell’intervento (come sostenuto dalle parti appellanti):

- né la suddivisione di un’area in cinque o più comparti (e ciò a maggior ragione nei casi in cui la destinazione dell’area complessivamente intesa risulti omogeneamente definita), poiché la decisione di “parcellizzazione”, variamente attuata, di un’area a fini di pianificazione, se risponde a possibili (e anche giustificabili) esigenze di chiarezza espositiva dello strumento, non può certo determinare una modificazione del carattere unitario del territorio materialmente considerato sotto gli aspetti geografici, paesaggistici, culturali;

- né la “non contiguità” degli interventi, non essendo indispensabile, ai fini della individuazione del carattere unitario del medesimo, una continuità di emersione “edilizia” degli interventi stessi, ben potendosi essi presentarsi separati, quanto ai complessi edilizi realizzandi (ad esempio, più insediamenti abitativi o turistici, separati tra loro, anche in modo netto), ma tuttavia costituenti, nel loro insieme, un intervento massiccio di edificazione di una valle, una collina, un promontorio, una costa;

- né la diversa classificazione degli interventi da realizzarsi, poiché ciò che rileva in sede di VIA non è la destinazione urbanistica della zona (e dunque la destinazione d’uso possibile e legittima dei nuovi immobili da realizzarsi), quanto l’impatto edilizio complessivo del “nuovo” da edificarsi;

- né l’autonoma realizzabilità dei piani di lottizzazione, poiché ciò costituisce un evento futuro, laddove la VIA deve essere effettuata in relazione a ciò che è comunque possibile realizzare (edificare) sulla base degli atti amministrativi e dei progetti tecnici ad essi inerenti, non già in relazione a ciò che potrà (o meno) essere realizzato, alla discontinuità temporale della realizzazione del nuovo intervento, alla eventuale pluralità di soggetti realizzatori.

A fronte di ciò, la sentenza appellata ha ampiamente e condivisibilmente indicato le ragioni che sorreggono la considerazione “unitaria” dell’intervento, e che rendono, dunque, illegittima la decisione dell’amministrazione di procedere a “verifica preliminare”, non già tenendo conto di quanto si andava ad individuare come complessivamente realizzabile, quanto singoli piani di lottizzazione in relazione a singoli sub comparti.

In tale contesto fattuale, la motivazione volta a sorreggere la decisione di non sottoporre a VIA la gran parte dell’intervento (complessivamente considerato), avrebbe dovuto, in ragione della natura del territorio e della rilevanza dimensionale dell’edificando, presentare argomentazioni e valutazioni ampie, perspicue e complesse, volte ad escludere sia la natura unitaria dell’intervento in loc. Capo Malfatano, sia la compatibilità di tale intervento unitariamente inteso con un territorio di particolare pregio e, come tale, meritevole di attenta considerazione e tutela.

D’altra parte, ove anche si volessero considerare – come è avvenuto – separatamente i singoli piani di lottizzazione, la singola valutazione effettuata per ciascuno di essi non avrebbe potuto comunque prescindere da una comparazione con altri singoli piani, che - nella medesima sede valutativa o comunque in un quadro di pianificazione complessivamente unitario – si proponevano all’attenzione del decidente.

Deve essere, dunque, condivisa la sentenza appellata, laddove essa afferma che “l’insufficienza del corredo motivazionale ed istruttorio acquista poi maggiore evidenza ove lo si rapporti alla particolare delicatezza delle scelte tecnico-discrezionali operate dalla Regione, che . . . hanno dato l’avvio ad un intervento edificatorio di grande rilevanza quantitativa e capace di interessare un territorio vastissimo e di indubbio valore ambientale e paesaggistico. In tale contesto la Regione avrebbe dovuto fondare la propria valutazione su rilievi specificamente riferibili alle caratteristiche concrete dell’ambiente coinvolto, mentre si è limitata ad osservazioni generiche e slegate dal contesto specifico di riferimento”.

In simile quadro, dunque, non assume alcun particolare rilievo che la sottoposizione a VIA sia obbligatoria (se gli interventi “ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394” o meno), ovvero se essa debba essere comunque disposta, in ragione della natura ed entità dell’intervento, ovvero se difetta ogni motivazione atta a sorreggere una determinazione negativa circa la sottoponibilità dell’intervento a V.I.A, effettuata in sede di verifica preliminare.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, anche i motivi sub g) dell’appello SITAS e sub n) dell’appello Comune devono essere respinti.

In definitiva, stante l’infondatezza di tutti i motivi proposti, sia l’appello della soc. SITAS, sia l’appello incidentale del Comune di Teulada devono essere rigettati.

16. L’appello dell’associazione Italia Nostra deve essere in parte rigettato (in relazione al motivo sub q), in parte dichiarato inammissibile, in relazione agli ulteriori motivi proposti.

Quanto a questi ultimi, il Collegio ha già rilevato la ascrivibilità dei medesimi ad un appello incidentale “proprio” (ex art. 96, co. 4, Cpa e 334 c.p.c.), di modo che la pronuncia di rigetto degli appelli della soc. SITAS e del Comune di Teulada, ne determina l’inammissibilità.

Quanto al motivo sub q), occorre osservare che con lo stesso si censura la sentenza nella parte in cui essa, mentre include tra gli atti impugnati l’autorizzazione paesaggistica 20 ottobre 2008 n. 15, non espressamente citata nell’epigrafe del ricorso in I grado, pronunciandone l’annullamento, non giunge alle stesse conclusioni “con riferimento alle autorizzazioni nn. 11 e 13, che si collocano nella stessa fase procedimentale dell’autorizzazione n. 15/2008, ma nell’ambito degli altri due sub comparti, E1/e ed E1/f, anch’essi oggetto di gravame”. Di modo che “o tali provvedimenti devono ritenersi travolti dall’annullamento dei provvedimenti che hanno negato la VIA, perché ad essi successivi . . . oppure la sentenza è errata per non avere incluso tali atti tra quelli oggetto di gravame e per non averne pronunciato espressamente la caducazione”.

Orbene, un effetto tipico dell’annullamento di un atto amministrativo, che si presenta quale atto presupposto di altri adottati sulla sua preventiva emanazione, è quello di determinare – ancorché non espressamente pronunciata dal giudice – la caducazione di questi ultimi.

Nel caso di specie, così come sostenuto dall’appellante, gli atti non solo temporalmente successivi a quelli che hanno negato la sottoponibilità a VIA degli interventi, ma che rinvengono in tali atti il loro presupposto logico–giuridico devono intendersi caducati (ed in tale condizione si pongono le citate autorizzazioni nn. 11 e 13). Ma questo effetto discende dalla pronuncia di annullamento già intervenuta e, dunque, non costituisce effetto dell’accoglimento di un motivo di appello a tali fini proposto, che deve essere, conseguentemente, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono determinate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello proposto da SITAS s.r.l. (n. 5565/2012 r.g.), nonché sugli appelli incidentali proposti dal Comune di Teulada e dall’Associazione Italia Nostra Onlus:

a) rigetta l’appello proposto dalla SITAS s.p.a. e l’appello incidentale proposto dal Comune di Teulada;

b) in parte rigetta, in parte dichiara inammissibile l’appello incidentale proposto dall’Associazione Italia Nostra Onlus;

c) per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;

d) condanna la SITAS s.p.a., il Comune di Teulada e la Regione Puglia al pagamento, in favore della Associazione Italia Nostra Onlus, delle spese, diritti ed onorari di giudizio, che liquida in Euro cinquemila/00 (5.000,00) a carico di ciascuna delle parti predette.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 febbraio 2013 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Andrea Migliozzi, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/01/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)