L’interesse paesaggistico dei fiumi, dei torrenti e dei corsi d’acqua.
Particolarità dei Piani Paesaggistici.

di Massimo GRISANTI

Quando oggi si trattano, sotto il profilo della tutela paesaggistica, i fiumi, i torrenti e i corsi d’acqua iscritti negli elenchi del R.D. n. 1775/1933, non si può evitare di partire, nell’interpretazione della legge in materia, dalla Circolare 31 agosto 1985, n. 8 “Applicazione della legge 8 agosto 1985, n. 431 (Tutela delle zone di particolare interesse ambientale)” emanata dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.

 

Recita la circolare:

 

“I) E' pregiudiziale alla corretta interpretazione della legge in parola il richiamo della normativa vigente in materia, non prescindendo dal costante rinvio alla giurisprudenza, alla dottrina ed alla prassi, in tanti lustri di applicazione formatesi.

 

E' altresì utile, agli stessi fini, tener conto dei dibattito parlamentare sul D.L. n. 312 in sede di conversione in legge ed in particolare degli ordini del giorno e delle raccomandazioni rivolte al Governo e che il Governo si è impegnato ad osservare.

 

Giova, infine, riflettere sull'accezione stessa di «bene ambientale», tenendo conto della evoluzione teoretica e pratica, verificatasi dalla prima normativa ad oggi, ossia della odierna concezione di «bene», che non annulla, ma supera, non nega, ma integra, quello originario di «bellezza naturale».

 

Il rinvio al diritto positivo comporta, pertanto, l'obbligo di una lettura contestuale e comparata almeno delle seguenti fonti:

a) L. n. 1497 del 29 giugno 1939, sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche;

b) L. n. 1089 del 1° giugno 1939, sulla tutela di cose di interesse artistico e storico (sia per quanto concerne i beni archeologici, sia per quanto attiene ai rinvii conseguenti alla stessa citata L. n. 1497);

c) R.D. n. 1357 del 3 giugno 1940, concernente il regolamento per l'applicazione della legge sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche;

d) art. 733 del codice penale, e, più specificamente, art. 734 del codice penale, per quanto concerne le violazioni ed in particolare le «distruzioni, deturpazioni e alterazioni delle bellezze naturali»;

e) L. n. 382 del 22 luglio 1975 e norme delegate di cui al D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616;

f) L. n. 431 dell'8 agosto 1985, oggetto della presente;

g) normativa vigente in materia di tutela urbanistica, forestale idro- geologica;

h) L. n. 1150 dei 17 agosto 1942, e successive modificazioni, ivi compresa la L. 28 febbraio 1985, n. 47.

 

E' appena il caso di rammentare che la lettura delle norme anzidette va condotta alla luce dei principi e delle disposizioni contenuti nella Carta costituzionale, non solo per i richiami diretti all'obbligo di tutela del paesaggio, contestualmente a quella del patrimonio storico-artistico della Nazione, bensì anche, per una visione corretta della tutela dei diritti, in stretta connessione con i doveri di solidarietà, stante la funzione sociale che la proprietà stessa è chiamata ad assolvere. (…)

 

II) L'applicazione della legge in questione esige, anzitutto, un costante e proficuo rapporto di collaborazione tra questo Ministero, nei suoi organi centrali e periferici, i Ministeri aventi competenza sia pure parziale in materia (agricoltura e foreste, lavori pubblici, marina mercantile, ecc.), e le Regioni.

 

Necessita, pertanto, istituzionalizzare collegamenti organici perché l'azione di tutela dalla programmazione all'attuazione, su tutto il territorio interessato, si svolga puntualmente e coerentemente, evitando non solo i pur possibili conflitti di competenza, bensì, anche, le inutili interferenze atte a disorientare i cittadini e, in genere, i destinatari ed i responsabili dell'applicazione della norma.

 

E' opportuno ricordare che, a questo fine, occorre immediatamente attivare in tutte le Regione il comitato paritetico regionale per i beni culturali previsto dall'art. 35 dei D. P. R. 3 dicembre 1975, n. 805.

 

III) Oggetto della tutela, di cui alla L. n. 431, è il patrimonio paesistico ambientale della Nazione.

 

Il fine da perseguire è quello diretto ad evitare alterazioni morfologiche e strutturali del paesaggio vietando interventi che arrechino deturpazione o stravolgimento dei luoghi. La tutela deve essere esercitata tenendo presenti tutti gli elementi (terreno, strade, vegetazione, tipo e ubicazione dei fabbricati, ecc.), che concorrono a dare ad ogni località peculiari caratteristiche paesistiche ed ambientali, comprese le testimonianze della presenza dell'uomo sul territorio nei segni (documenti) della sua complessa e multiforme vicenda storica.

 

Così inteso, il patrimonio paesistico-ambientale costituisce anche supporto ed integrazione di quello archeologico, architettonico, storico e artistico.

 

Di qui l'esigenza di una tutela unitariamente intesa e l'avvertenza che la conservazione non è sinonimo di cristallizzazione, posto che tutela e valorizzazione non sono che due momenti confluenti nell'unico impegno che, anche alla luce della legge in esame, siamo chiamati ad assolvere.”.

 

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E’ bene ricordare che la legge n. 431/1985 – a differenza del D. Lgs. n. 42/2004, il quale ha precisato come il vincolo riguarda le aree su cui i beni ambientali insistono – estese il vincolo paesaggistico ai beni fiumi, torrenti ed ai corsi d’acqua classificati pubblici.

 

Il Ministero, con la circolare anzidetta, ebbe modo di esplicitare – chiaramente – il proprio pensiero in ordine al momento costitutivo del vincolo: “Tali vincoli agiscono <ope legis> e, pertanto, non richiedono nessun provvedimento amministrativo di notifica dell’interesse ipso iure tutelato e non possono essere modificati …”.

 

Nei medesimi termini si è espresso, anche di recente, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 413/2012:

“(…) Sul punto, è per vero destituita di fondamento la pretesa del Comune di Rivarolo Canavese contestare la stessa esistenza del vincolo siccome non indicato nelle tavole allegate al P.R.G. comunale: infatti, nella specie trattasi di vincolo ex lege discendente dall’inserimento dell’area entro i 150 metri da un corso d’acqua costituente acqua pubblica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera c), d.lgs. nr. 42 del 2004, per il quale le esigenze di tutela paesaggistica sono presunte dal legislatore e possono, al più, essere escluse dall’amministrazione interessata con una dichiarazione di irrilevanza ex art. 142, comma 3, del medesimo decreto, ciò che non risulta avvenuto nel caso di specie. (…)”.

 

Ma il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 657/2002, ha detto ancora di più ovverosia ha chiarito che il legislatore statale ha attribuito alle Regioni il potere di svincolare paesaggisticamente solo i corsi d’acqua classificati pubblici diversi da fiumi e torrenti (in quanto quest’ultimi sono pubblici ex lege e non abbisognano, quindi, di un provvedimento di riconoscimento della pubblicità).

 

Tale interpretazione è stata condivisa anche dalla Suprema Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza n. 29733/2013.

 

Da tutto ciò ne consegue che i provvedimenti regionali che abbiano inteso svincolare paesaggisticamente i fiumi e i torrenti sono palesemente nulli (tamquam non esset) per difetto assoluto d’attribuzione, non avendo lo Stato – unico soggetto competente in materia di paesaggio, sia sotto il profilo legislativo, sia sotto quello regolamentare – conferito tale potere alle Regioni. Ma ne consegue, anche, che le opere eseguite senza autorizzazione paesaggistiche sono radicalmente abusive e insanabili ricorrendone i presupposti ex art. 167 del D. Lgs. n. 42/2004.

 

Invero, siffatti provvedimenti regionali – come ad esempio la deliberazione del Consiglio regionale della Toscana n. 95/1986 (comprendente fiumi e torrenti, anche ad elevato rischio idraulico) – in violazione di legge hanno diminuito il livello minimale di tutela prescritto dallo Stato.

 

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Il D. Lgs. n. 42/2004, denominato “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137” ha innovato profondamente la materia in doveroso recepimento della Convenzione Europea del Paesaggio.

 

All’uopo, invero, il legislatore, utilizzando lo strumento del Codice, ha scisso la tutela ambientale sul bene acqua (fiumi, torrenti ecc.) precisando che il vincolo paesaggistico è imposto ope legis sulle aree ove sono compresi tali beni.

 

Con disposizione di carattere indubbiamente innovativo rispetto a quella precedentemente contenuta nell’art. 1-quater della legge n. 431/1985, il D. Lgs. n. 42/2004 – all’art. 142, comma 3 – stabilisce che “La disposizione del comma 1 non si applica ai beni ivi indicati alla lettera c) che, in tutto o in parte, siano ritenuti irrilevanti ai fini paesaggistici e pertanto inclusi in apposito elenco redatto e reso pubblico dalla regione competente. (…)”.

 

La disposizione derogata è “Fino all'approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 156, sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo Titolo per il loro interesse paesaggistico …”.

 

Ecco che lo Stato, solamente dall’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42/2004, abilita le Regioni a escludere dalla tutela paesaggistica provvisoria le aree ove scorrono fiumi, torrenti e corsi d’acqua classificati pubblici.

 

Sennoché all’indomani della legge n. 36/1994 (abrogante gli elenchi del R.D. n. 1775/1933) tutte le acque fluenti (compreso le sorgenti) sono state dichiarate pubbliche. Il concetto è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Piemonte, n. 1732/2007; TAR Lombardia, BS, n. 1771/2012; TAR Toscana, n. 1749/2012).

 

Ma quel che più rileva è che nella sentenza n. 539/1997 del TAR Sicilia, CT – il quale accolse le posizioni dell’Avvocatura distrettuale dello Stato agente per conto della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Ragisa e Siracusa, sta Ministero dei Beni Culturali – vi si statuisce:

“(...) Secondo il ricorrente, in forza ed ai sensi dell'art. 1 della L. n.36/1994, correttamente interpretata, le acque periodiche di flusso stagionale non potrebbero essere annoverate tra quelle pubbliche indicate nel detto articolo.

Per contro il Collegio ritiene che in base sia all'interpretazione letterale della norma che all'interpretazione logico sistematica della stessa si debba pervenire ad un esito interpretativo diverso.

Invero, la dizione della norma,"tutte le acque..." si appalesa volutamente ampia ed onnicomprensiva.

Non si può ritenere che le acque stagionali, (cioè quelle corsi di acqua, che si presentano periodicamente, in concomitanza con eventi meteorici), siano escluse dal legislatore dalla disciplina di cui alla legge in esame.

Inoltre per l'inclusione dei torrenti nella disciplina normativa scaturente dal combinato disposto delle leggi n. 341/1985 e n. 36/1994, militano anche la "ratio" e, soprattutto, l'"occasio legis".

Il Legislatore con le norme in esame ha inteso, tra l’altro, disciplinare l'uso delle acque, ma soprattutto l'uso indiscriminato e deleterio del territorio che circonda le acque, sia in funzione della tutela paesaggistica (in ottemperanza al principio costituzionale che impone la tutela del paesaggio), che in funzione della difesa dell'assetto idrogeologico del territorio, che costituisce un momento della tutela dell'ambiente.

La predetta normativa è volta a tutelare il paesaggio, ivi compreso quello che circonda i torrenti, (che specie nel Sud dell'Italia costituiscono la maggior parte dei corsi di acqua), ed a garantire il normale decorso delle acque, ivi comprese quelle torrentizie, salvaguardando l'alveo, le sponde e la vegetazione di tutti indistintamente i corsi d’acqua, onde evitare il loro improvviso tracimare, che causa sempre più spesso gravi danni alle persone ed alle cose.

La legge n.36 del 1994, emanata sotto l'incalzante spinta dell'emergenza ambientale, evidenzatasi con un sempre crescente verificarsi di calamità naturali provocate da tracimazioni di corsi d’acqua anche a regime torrentizio, completa ed affina la tutela del territorio.

Nell'ottica di questa legge, il valore ricognitivo affidato dalla L. n. 431/1985 al T.U. del 1933 perde spessore,essendosi, per contro, generalizzata la tutela di "tutte le acque" in base al fattore ontologico, prescindendo dalla loro inclusione o meno negli elenchi, previsti dall'art. 1 , quater, L. n.431/1985. (…)”.

 

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Lo Stato, evidentemente accortosi del grave errore commesso nell’aver concesso alle Regioni – mediante la disposizione dell’art. 142, comma 3 del D. Lgs. n. 42/2004 – di svincolare le aree ove scorrono le acque fluenti, ecco che con l’art. 12 del D. Lgs. n. 157/2006 (1° correttivo - Rutelli) sostituisce integralmente l’art. 142 del Codice correggendo l’errore e stabilisce che possono ritenersi svincolate solamente quelle aree che hanno formato oggetto di provvedimenti regionali nell’arco temporale che va dall’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42/2004 a quella del 1° correttivo:

“Art. 142 – comma 3 - La disposizione del comma 1 non si applica ai beni ivi indicati alla lettera c) che la regione, in tutto o in parte, abbia ritenuto, entro la data di entrata in vigore della presente disposizione, irrilevanti ai fini paesaggistici includendoli in apposito elenco reso pubblico e comunicato al Ministero. (…)”.

 

Pertanto – nel caso specifico della Toscana (senza escludere che vi siano ulteriori casi nelle altre regioni) – non solo il contenuto della deliberazione consiliare n. 95/1986 di svincolo era inefficace per quanto concerne i fiumi e i torrenti, ma addirittura quantomeno dal 1/5/2004 (entrata in vigore del Codice) anche i corsi d’acqua minori sono tornati vincolati sotto il profilo paesaggistico.

 

E’ forse superfluo dire – quasi a mò di denuncia – che la Regione Toscana (e gli enti dalla stessa delegati all’esercizio della funzione autorizzatoria) continua a non far richiedere l’autorizzazione paesaggistica per gli interventi nelle aree de quibus.

Né alla Direzione regionale del MIBAC preme per far applicare la legge nonostante, ed esistono documenti di corrispondenza con il Ministero, anche al MIBAC stesso siano bene a conoscenza del problema (quando si dice che l’attuale governo è la ratifica delle già esistenti “larghe intese”!).

 

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Con il II° correttivo al Codice (D. Lgs. n. 63/2008), lo Stato modifica nuovamente il terzo comma dell’art. 142 sostituendo le parole: “La disposizione del comma 1 non si applica ai beni ivi indicati alla lettera c) che la regione, in tutto o in parte, abbia ritenuto, entro la data di entrata in vigore della presente disposizione,” con “La disposizione del comma 1 non si applica, altresì, ai beni ivi indicati alla lettera c) che la regione abbia ritenuto in tutto o in parte”.

Si rafforza così l’impossibilità di svincolo paesaggistico delle acque pubbliche.

 

Ciò posto, le aree relative alle acque pubbliche non possono giammai essere svincolate con i piani paesaggistici, i quali necessariamente – riguardo ai c.d. “beni ambientali” ex legge Galasso – devono essere elaborati d’intesa con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.

E’ invalsa nelle Regioni – e negli ambienti del MIBAC – la convinzione che il Piano Paesaggistico regionale possa essere adottato senza che sia stata raggiunta l’intesa con il Ministero dell’Ambiente o che questi abbia espresso il proprio nulla osta.

 

E’ una convinzione del tutto errata e che porta alla formazione di Piani Paesaggistici radicalmente inefficaci (come quello prossimo della Regione Toscana) laddove investono le aree tutelate per legge.

 

Invero, a ciò ostano:

 

  1. sia l’espressione contenuta nell’art. 142, comma 1, del D. Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii.: “Le regioni, il Ministero ed il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare possono stipulare intese per la definizione delle modalita' di elaborazione congiunta dei piani paesaggistici, salvo quanto previsto dall'articolo 135, comma 1, terzo periodo.”;

 

  1. sia quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 367/2007:

“7.1. - La questione non è fondata.

Come si è venuto progressivamente chiarendo già prima della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, il concetto di paesaggio indica, innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l'ambiente nel suo aspetto visivo. Ed è per questo che l'art. 9 della Costituzione ha sancito il principio fondamentale della “tutela del paesaggio” senza alcun'altra specificazione. In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale.

Si tratta peraltro di un valore “primario”, come ha già da tempo precisato questa Corte (sentenza n. 151 del 1986; ma vedi anche sentenze n. 182 e n. 183 del 2006), ed anche “assoluto”, se si tiene presente che il paesaggio indica essenzialmente l'ambiente (sentenza n. 641 del 1987).

L'oggetto tutelato non è il concetto astratto delle “bellezze naturali”, ma l'insieme delle cose, beni materiali, o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico.

Sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni.

La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni.

Si tratta di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti. E in proposito la legislazione statale ha fatto ricorso, ai sensi dell'art. 118 della Costituzione, proprio a forme di coordinamento e di intesa in questa materia, ed ha affidato alle Regioni il compito di redigere i piani paesaggistici, ovvero i piani territoriali aventi valenza di tutela ambientale, con l'osservanza delle norme di tutela paesaggistica poste dallo Stato. In particolare, l'art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, novellato dall'art. 13 del d.lgs. n. 157 del 2006, ha previsto la possibilità, per le Regioni, di stipulare intese con il Ministero per i beni culturali ed ambientali e con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio per «l'elaborazione congiunta dei piani paesaggistici», precisando che il contenuto del piano elaborato congiuntamente forma oggetto di apposito accordo preliminare e che lo stesso è poi «approvato con provvedimento regionale».

In buona sostanza, la tutela del paesaggio, che è dettata dalle leggi dello Stato, trova poi la sua espressione nei piani territoriali, a valenza ambientale, o nei piani paesaggistici, redatti dalle Regioni.

In questo stato di cose, la Regione Toscana non può certo lamentarsi di non poter statuire d'intesa l'individuazione dei beni da tutelare ed il regime di tutela, in quanto incidenti su competenze regionali.

Come sopra si è chiarito, le competenze regionali non concernono le specifiche modalità della tutela dei beni paesaggistici (rimessa alla competenza esclusiva dello Stato), ma la concreta individuazione e la collocazione di questi ultimi nei piani territoriali o paesaggistici.

Quanto alla reintroduzione nel Codice dei beni culturali e del paesaggio della tipologia dei beni paesaggistici previsti dal decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, si deve inoltre sottolineare che detta legge ha dato attuazione al disposto del citato articolo 9 della Costituzione, poiché la prima disciplina che esige il principio fondamentale della tutela del paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali.

Alla luce di quanto detto cade anche l'altra censura della Regione Toscana, secondo la quale non le dovrebbe essere preclusa la possibilità di «individuare con il piano paesaggistico i corsi d'acqua irrilevanti dal punto di vista paesaggistico».”.

 

In definitiva, statuisce la Corte Costtuzionale:

  1. non spetta alle Regioni vincolare o svincolare le aree ex art. 142 del Codice, ma spetta solo il compito di individuare su carta – attraverso l’opera di ricognizione – dette aree;

  2. l’accordo sul contenuto del piano paesaggistico che MIBAC e Regione devono stipulare prima di procedere nell’approvazione non è valido se il Ministero dell’Ambiente non ha partecipato alla formazione del contenuto.

 

Viene il sospetto che le Regioni – d’intesa con il MIBAC – istituiscono veri e propri condoni paesaggistici a mezzo dei Piani:

  • non operando una corretta ricognizione delle acque pubbliche [e ciò al fine di non svelare gli errori passati, e talora ancora attuali, per non aver fatto richiedere le autorizzazione paesaggistiche in zone vincolate ope legis, magari zone alluvionate e disastrate (docet su morti, feriti, danni e disagi)];

  • definendo come degradate aree e beni che erano intonsi al momento dell’imposizione del vincolo paesaggistico, e su cui, magari, è stato operato con autorizzazioni paesaggistiche (invalide perché non rispondenti ai fini dell’istituto provvedimentale, che è quello della tutela, che hanno portato ad opere sostanzialmente abusive).

 

*

 

In ultimo, occorre evidenziare che nel caso in cui il Piano Paesaggistico individui aree tutelate per legge ove la realizzazione di interventi viene dispensata dall’autorizzazione paesaggistica, ciò non toglie che le infrazioni alla disciplina di tutela vengano sanzionate con le norme della Parte Quarta del Codice (demolizione per insanabilità a seguito di aumento di superfici e volumi), atteso che, come prescritto dall’art. 142, tali aree “sono comunque di interesse paesaggistico”.

 

Questa regola non può essere infranta nemmeno dalle eccezioni contenute nei commi 2 e 3 dell’art. 142:

“2. La disposizione di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica alle aree che alla data del 6 settembre 1985:

a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B;

b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;

c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.

3. La disposizione del comma 1 non si applica, altresì, ai beni ivi indicati alla lettera c) che la regione abbia ritenuto in tutto o in parte irrilevanti ai fini paesaggistici includendoli in apposito elenco reso pubblico e comunicato al Ministero. Il Ministero, con provvedimento motivato, può confermare la rilevanza paesaggistica dei suddetti beni. Il provvedimento di conferma è sottoposto alle forme di pubblicità previste dall'articolo 140, comma 4.”.

 

Infatti, ciò che non si applica è la disposizione del comma 1 – “sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo” – non essendone scalfito il riconoscimento e statuizione “sono comunque d’interesse paesaggistico”.

 

Ciò significa che nel caso delle eccezioni è sì possibile (facoltà) non munirsi di autorizzazione per eseguire gli interventi, ma si impone comunque la sanzionabilità con le disposizioni contenute nella Parta Quarta in caso di opere eseguite sine titulo urbanistico-edilizio oppure qualora vengano annullate in sede giudiziale le norme di piano che dispensano dal munirsi dell’autorizzazione o le norme di piano che formano la disciplina d’uso.

 

 

Scritto il 25 novembre 2013